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 2014  dicembre 19 Venerdì calendario

Gigi Proietti parla di Er catachisimo, l’ultima raccolta di Gioacchino Belli, e della sua sorpendente lezione di attualità: «In tutti i 2279 sonetti in dialetto romanesco del corpus belliano, accanto ai plebei, agli artigiani, agli aristocratici, ai viaggiatori e alle prostitute compaiono prelati, chierici, monsignori, se non i cardinali e lo stesso pontefice. Un universo commisto in cui tutti sono, in un modo o nell’altro, peccatori, e vorticosamente animano la città papalina, percorsa da episodi di golosità, fornicazione e corruzione»

A chi osava definirlo un poeta “minore”, Giuseppe Gioachino Belli rispose per iscritto: Bada, nun biastimà, Pippo, ché Iddio / è omo da risponne per le rime. Un rapporto franco, quasi fisico, quello del poeta del Commedione con Nostro Signore. Belli infatti, nato e cresciuto nella Roma del Papa Re e per molti anni funzionario pontificio, nei suoi sonetti intreccia costantemente, da buon credente disinibito, vita profana e vita religiosa.
Mentre non s’è ancora spenta l’eco della “spiega” al popolo in tv dei Dieci Comandamenti, a cura a Roberto Benigni e con dieci milioni di spettatori, esce in libreria la raccolta Er catachisimo, ovvero La riliggione spiegata e indifesa nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli, a cura di Marcello Teodonio (elliot edizioni, 729 pagine, 47 euro). È una summa di quadri acuti, arditi, esilaranti che coinvolgono la Città Eterna in una sarabanda coloratissima, i cui protagonisti sono i personaggi, i riti e gli usi curial-vaticani, nonché i fondamenti della cultura ecclesiastica del tempo.
IL POPOLO DEI PRELATI
«A dire la verità – commenta Gigi Proietti, cultore e fine dicitore del Belli – praticamente in tutti i 2279 sonetti in dialetto romanesco del corpus belliano, accanto ai plebei, agli artigiani, agli aristocratici, ai viaggiatori e alla prostitute compaiono prelati, chierici, monsignori, se non i cardinali e lo stesso pontefice. Un universo commisto in cui tutti sono, in un modo o nell’altro, peccatori, e vorticosamente animano la città papalina, percorsa da episodi di golosità, fornicazione e corruzione. Nel sonetto Le lemosine p’er terremoto, ad esempio, Belli immortala la misteriosa dispersione dei fondi raccolti per i terremotati, annotando che er terremoto come l’antri guai/pe li vescovi è bbono a cquarche ccosa. Colpi di frusta, i suoi versi, ai costumi vigenti nella Roma del potere temporale papalino. Colpiscono qui gli uomini di Dio, ma in altri casi si abbattono sulla gente comune. In materia di terremoto, da notare l’evidenza dei corsi e ricorsi».
Belli, uomo di fede, non rinuncia dunque a “vedere” i mali che affliggono la Chiesa e molti dei suoi esponenti. E il malessere conseguente a queste consapevolezze lo esprime, alleato ante litteram di Papa Francesco e delle sue esigenze di pulizia e trasparenza, in vernacolo, la lingua plebea che ritiene chiaroveggente.
Nato nella città dei Cesari e Papi nel 1791 da una famiglia di origine marchigiana, il poeta crebbe, povero, in via del Corso. Il fatto di dover lavorare, come segretario o copista, nelle case nobiliari, conoscendo i costumi dei Rospigliosi e del principe Poniatowsky, e la lunga frequentazione delle accademie vaticane e dei loro lussi, gli regalarono la vena caustica e smagata che usa per demolire. Un “guastatore” che pure accettò, a un certo punto della carriera, l’incarico di censore degli spettacoli teatrali, esercitato con un a severità quasi codina.
FASCINI SINGOLARI
«È proprio questo fascino strano, di colto baciapile e spudorato relatore di strada e di taverna, a rendere il Belli un’irresistibile calamita – continua Proietti -. Nessuna voce romana che si rispetti si astiene dai suoi sonetti. Io, ad esempio, ho da sempre la voglia di inciderli in edizione integrale E prima di me Vittorio Gassman, romano d’adozione, ha adorato certe prospettive potenti e scurrili, a loro modo sempre e comunque moralizzatrici».
Estremamente attuale, tra i tanti, anche il sonetto L’inferno, nel cui finale il poeta invoca Cristo di tener lontani i cristiani da la casa de li guai, leggasi il luogo del fuoco eterno: Ggesù mmio bbattezzato e ccirconsiso, / arberghesce li turchi e bbadanai, / e a noi dacce l’alloggio in paradiso (Gesù mio battezzato e circonciso / albergaci i turchi e gli ebrei / e dai a noi l’alloggio in paradiso). L’improvvisato predicatore che indottrina i correligionari, apostrofandoli “cristiani dilettissimi”, chiede a Gesù di riservare l’inferno agli stranieri, ai diversi, agli “altri”, per ospitare tra le delizie solo gli appartenenenti alla “vera religione”.
E che dire del graffio, assumibile a monito eternamente capitolino, di Settimo, nun rubbà? Dopo una serie di raccomandazioni ai ladri di turno, Belli affida un capolavoro alla terzina: La profession der ladro è bbella e bbona; /ma ddar momento c’arincrebbe a Ddio / è ddiventata un’arte bbuggiardona.