Il Messaggero, 19 dicembre 2014
Il no di Pellegrino Capaldo al finanziamento pubblico: «Siano i cittadini ad allargare la loro partecipazione ai partiti. Lo Stato non può sostituirsi a loro»
Tanta voglia di ritorno sic et semplicter al finanziamento pubblico ai partiti. Ma c’è chi – ed ecco Pellegrino Capaldo – dice no e poi no. Però, professore, non vede che la nuova legge sta funzionando male?
«Faccio una premessa. Secondo me, la politica deve basarsi largamente sul volontariato e sulla passione civile. Conseguentemente può e deve costare poco, anche grazie ai moderni mezzi di comunicazione. Ma quel poco dev’essere finanziato attraverso piccoli contributi di tantissime persone. Lo Stato può aiutare, con opportune misure fiscali, i cittadini in questo loro sforzo anche per allargare la loro partecipazione al finanziamento. Ma lo Stato non può sostituirsi ai cittadini. Deve essere chiaro che i cittadini debbono essere posti al centro del processo di finanziamento della politica e che senza la loro iniziativa e la loro decisione neppure un euro può andare alla politica. Queste idee debbono via via radicarsi nel nostro comune sentire, in modo da tener lontane dalla politica persone attratte solo dal potere e dal denaro. So bene che si tratta di cambiare radicalmente un diffuso modo di fare e di pensare ma non vedo alternative. È chiaro che se si imbocca la strada qui prospettata, occorre che le più alte cariche dello Stato si”spendano” per accreditare la svolta presso l’opinione pubblica».
Ma in questa direzione va la legge che ha cancellato il finanziamento pubblico e introduce la formula del 2 per mille. Perchè ha fallito?
«Alla formula del 2 per mille muovo due rilievi. Tecnicamente essa non tiene conto del fatto che l’imposta pagata attraverso la dichiarazione dei redditi è solo una parte delle imposte pagate dal cittadino perché resta escluso dal computo ciò che è pagato attraverso la cosiddetta ritenuta secca. Ma, anche a voler trascurare questa obiezione, rimane il fatto che il contributo di ciascun cittadino al finanziamento della politica viene fatto dipendere dal suo reddito. A me questo criterio sembra molto discriminatorio, tanto più che alcuni cittadini scelgono consapevolmente professioni di alto valore sociale nonostante siano a basso reddito. Non è tuttavia il meccanismo del 2 per mille, con tutti i suoi limiti, che mi fa parlare di clamoroso fallimento della recente legge. C’è qualche aspetto che reputo più grave. In breve la legge prevede che i soggetti privati possano finanziare la politica fino a 100.000 euro, con una deduzione fiscale del 26% su un massimo di 30.000 euro. A mio parere non è accettabile che anche le imprese possano finanziare la politica e il divieto andrebbe esplicitamente sancito. So bene che in altri Paesi, in particolare nel grande Paese verso il quale abbiamo maggiore sudditanza intellettuale, questo è possibile. Ma io resto convinto che le imprese debbano restare estranee al finanziamento della politica se non vogliamo esporre il”sistema” a rischi forti e facilmente intuibili. Trovo poi molto alto il limite massimo di 100.000 euro. Secondo me il tetto dovrebbe essere posto a 2.000 euro, ma non mi scandalizzerei se venisse posto a 20/25.000 euro. Ma quel che è ben più grave è la bassa deducibilità fiscale. Con questo limitato tasso di deducibilità il finanziamento della politica diventa di fatto possibile solo alle persone agiate, per non dire ricche. E questo, ancora prima di essere eticamente criticabile, è politicamente sbagliato».
Che cosa pensa delle cene di finanziamento del Pd, da mille euro a testa?
«Sono una buffonata. E possibili fonti di malcostume».
Lei, tempo fa, ha proposto un progetto di legge di iniziativa popolare. In che cosa consiste?
«Il disegno di legge sul quale raccogliemmo centinaia di migliaia di firme (contro le 50.000 richieste) vuole attuare il principio che la politica debba essere finanziata con piccoli importi dal maggior numero possibile di cittadini. Ecco perché essa prevede un credito d’imposta (recuperabile in tempo pressoché reale), pari al 95% del contributo versato fino ad un massimo di 2.000 euro: importo che nel tempo potrebbe ridursi a 1.000 euro rimanendo sempre fermo al 95% il credito d’imposta. Per questa via tutti possono contribuire al finanziamento della politica, anche coloro che hanno bassissimo reddito; si mettono sostanzialmente su un piede di parità tutti i cittadini, quale che sia il loro reddito, e si dà attuazione al principio che solo a seguito di loro decisione i partiti possono ricevere soldi. Così facendo, inoltre, si pongono le basi perché tra i partiti scatti una sana emulazione per”piacere” ai cittadini e conquistarne la fiducia. E da questa emulazione è ragionevole prevedere che discenderebbero comportamenti virtuosi dei partiti stessi».
Sulle cooperative sociali (e qui va menzionato lo scandalo di Roma), come bisognerebbe intervenire?
«Debbo innanzitutto dire che le cooperative sociali per il modo in cui sono strutturate, meritano grande apprezzamento e grande fiducia. Purtroppo esse sono spesso utilizzate dai Comuni al solo scopo di esternalizzare determinati servizi e per contenerne i costi. E questo spiega anche perché cresce vistosamente il numero di cooperative sociali che hanno, di fatto, nel Comune il loro unico cliente. In questi casi le cooperative sociali diventano un soggetto estremamente vulnerabile, costretto ad accettare pressioni e compromessi di ogni tipo. Urge intervenire avendo ben chiaro però che la questione delle cooperative sociali è strettamente legata alla questione del welfare. Il nostro sistema di welfare ha bisogno di chiarezza e soprattutto deve perdere quel carattere residuale che lo contraddistingue, nel senso che quando l’economia va male e c’è da fare qualche taglio il primo a subirne le conseguenze è proprio il welfare. Questo modo di procedere è inaccettabile. Le cooperative sociali possono essere un attore importante nella costruzione di un efficace sistema di welfare. Ma occorre che esse non siano asservite alla Pubblica amministrazione e alla politica; occorre che esse siano in grado di operare in un contesto dove vi sia libertà di scelta degli utenti e pluralità di soggetti in grado di offrire determinati servizi. Purtroppo nel nostro Paese questo accade solo raramente».
Ma è possibile fare tutto questo?
«Sì, è possibile; la tecnica offre una varietà di strumenti adatti. Basta solo saperli utilizzare anche se, da sola, la tecnica non è sufficiente. Occorre che chi guida il processo di riordinamento del welfare persegua con convinzione la coesione sociale e sappia parlare a tutti i cittadini, facendo leva su quello che li unisce piuttosto che su quello che li divide, e sappia chiedere ad essi con umiltà, senza alcuna arroganza, aiuto e collaborazione».