Corriere della Sera, 19 dicembre 2014
L’orologiaio di Istanbul e la satira della burocrazia nel libro-capolavoro di Ahmet Hamdi Tanpinar. Un mondo ancora ottocentesco popolato da personaggi straordinari, percorso da saggezza e divertimento. Ora Einaudi pubblica per la prima volta in italiano il romanzo del grande scrittore turco
«Tutti sanno – scrive Ahmet Hamdi Tanpinar in una delle prime pagine de L’istituto per la regolazione degli orologi (Einaudi) – che la vita di un tempo era fondata sugli orologi. E secondo quanto mi aveva insegnato Muvakkit Nuri Effendi, i migliori clienti degli orologiai europei erano sempre stati i musulmani, e tra loro i più devoti erano i turchi. Le cinque preghiere quotidiane, la fine del Ramadan, il pasto prima dell’inizio del digiuno, qualunque rituale era regolato dall’orologio. L’orologio era il modo più sicuro di arrivare a Dio, e i nostri antenati regolavano le loro vite di conseguenza». Tanpinar è, secondo Orhan Pamuk, l’autore più importante della letteratura turca moderna. Questo romanzo, tradotto per la prima volta in italiano, è certamente strepitoso. Del resto, come si fa a non innamorarsi di un romanzo così? Un romanzo che con questa solenne leggerezza propone l’argomento non semplice del rapporto fra il tempo e l’eternità, fra l’uomo e Dio? E poi immediatamente – proprio come si fa con il meccanismo di un orologio – lo smonta in mille piccoli congegni che, privi di connessione fra di loro, incarnandosi in luoghi, personaggi, avventure normali e inverosimili – come nel Don Chisciotte o nel Tristram Shandy – girano a vuoto, o non girano per niente? Facendoci dubitare che possano esistere risposte convincenti o definitive alle domande che, su quello e su altri argomenti, a volte puntigliosamente ci poniamo?
L’artificio sperimentato della digressione, infallibile quando coltivato nell’ironia, è l’arte suprema che Tanpinar diffonde a piene mani nel racconto che Hayri Irdal, l’inconsapevole protagonista de L’istituto per la regolazione degli orologi, fa della propria sciagurata ed eroica esistenza – e, insieme, della miriade di parenti, mogli, amici, truffatori, spiritisti, scienziati, psicoanalisti, cognate e zie che lo circondano e lo assillano – nella Istanbul della prima metà del Novecento. Non c’è episodio, non c’è personaggio, non c’è incontro che si svolge in questa città meravigliosa, ancora ottocentesca – con i suoi palazzotti nobiliari, le stanze piene di oggetti antichi ammucchiati come in un trasloco, il mormorio delle fontane per le abluzioni nei cortili delle moschee, le sirene malinconiche e dolci delle navi che attraversano il Bosforo – che non apra le porte di altre case nobiliari o qualunque, i cancelli di altri cortili. Ma il vero protagonista, alla fine, e sempre, è l’orologio. Anzi, sono gli orologi: quelli che portiamo al polso o nel panciotto; quelli che, col loro ticchettio, riempiono il silenzio dei salotti e suonano le ore; quelli pubblici nelle piazze e nelle strade. Orologi che devono funzionare bene, non sgarrare neppure di un secondo. Altrimenti, i secondi si accumulano e il diavolo ci ruba il tempo.
Nato in una di quelle vecchie case di Istanbul con molte stanze, Hayri Irdal è stato lungamente ammaestrato dal padre, negli anni della sua infanzia, sui poteri soprannaturali del Santo. Unico oggetto di valore ereditato da una lunga stirpe di antenati ricchi e pii, il Santo non è altro che una grande pendola attaccata al muro. Vedremo scene inaudite, nel romanzo, a proposito di questa divinità ritenuta da taluni benefattrice, da altri iettatrice: persone che stupite ammirano il Santo, persone che si inginocchiano davanti al Santo, il Santo che parla. È indiscutibile: il Santo sa molte cose ed è molto vicino ad Allah. Però, «se è vero che l’Onnipotente ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e l’uomo ha inventato l’orologio perché possa assomigliargli» e dunque ogni orologio è un simbolo dell’universo, altrettanto vero è che ogni orologio, poi, è condizionato dal carattere del suo proprietario: smanioso, pigro, impaziente, lieto, triste, giovale, irascibile. E quello è il mondo.
L’Istituto per la regolazione degli orologi è un romanzo picaresco che inizia con l’apprendistato del protagonista nella bottega di un saggio orologiaio e si conclude con il progetto (che non sarà mai realizzato e molto sarebbe piaciuto a Borges) di costruire una immensa sede a forma di orologio per accogliere gli impiegati dell’Istituto. Al suo interno – parallelamente al vertiginoso percorso che porterà l’umile apprendista a conoscere la fama mondiale, a essere sulle pagine di tutti i giornali con articoli che elogiativi è dir poco (e anche molte falsità, come accade per le persone importanti), a essere finalmente giudicato l’Avicenna dei tempi moderni – il lettore incontrerà personaggi straordinari: impostori, pazzi, megalomani, bugiardi e creduli, astuti e innocenti; donne larghe di fianchi, appassionate e pudiche, sospirate e in carne ed ossa, mancate attrici hollywoodiane e mancate cantanti, guardinghe e sognatrici. E situazioni incredibili.
Giganteggia – fra le ragazze e le signore – la vecchia zia: rigida, dispettosa, tirchia nonostante la grande fortuna lasciatagli dal marito defunto, tiranneggia la famiglia di Hayri Iradl, a cominciare dal padre di Hayri, secondo lei un buono a nulla. Naturalmente, tutti la sopportano, essendo gli unici parenti. Così, quando questa vera strega muore, si precipitano a casa sua per evitare altri testamenti e comunque arraffare il possibile. Possono mai immaginare, padre e figlio, che proprio mentre stanno per calare nella fossa il feretro col coperchio semiaperto, la morta risorga dal suo sonno letargico e, senza farsi per nulla impressionare da quanto sta accadendo, ordini seccamente al becchino: «Forza, mi porti subito a casa»? E che dire di Pakize, la seconda moglie, tanto appassionata di cinema da convincersi di vivere in un film: essendo, per esempio, lei Giuseppina Beauharnais e Hayri Irdal Napoleone? O della cognata aspirante al canto, stonata come una campana, che riesce a trascinare mezza città in una danza folle?
Quanto agli uomini, beh, non si sa davvero chi è più disinvolto e chi è più pazzo. Costituiscono un bel gruppo di compagni che ogni tanto si incontrano, si perdono, e sanno che si rincontreranno. C’è chi è convinto che prima o poi troverà il tesoro dell’Imperatore Andronico. Chi ama follemente una donna già nell’al di là e, nell’attesa di godere le gioie del Paradiso musulmano, intrattiene con lei lunghe conversazioni, e chi per ottenere la vita eterna rifiuta ogni dono e preferisce vivere nell’arido deserto del niente. Chi dovrebbe fare il farmacista e invece, persuaso di poter produrre l’oro con l’anima, muore carbonizzato nella sua farmacia. Chi, nella Associazione Spiritica, riceve telefonate di defunti parenti liguri mai conosciuti e chi telefonate del generale Murat. Chi fa lo psicanalista e si infuria perché il suo paziente, Hayri Irdal, non fa di notte i sogni che a lui servirebbero per accreditargli il complesso d’Edipo, ma nel contempo pensa che Hayri Irdal è un genio e con lui bisognerà costruire la grande teoria sociologica dell’orologio.
C’è Halit il Regolatore, l’uomo che ha capito tutto di quell’inetto di Hairy Irdal, di quel grande cercatore di Assoluto senza sapere di esserlo, e continuamente lo sprona al «fare». C’è Ahmet il Tempistico, altro grande filosofo dell’orologeria, che forse non è mai esistito, sul quale Hayri Irdal deve scrivere un libro che ne descriva il pensiero e la vita. C’è il Santo (la pendola) onnipresente, dal cui quadrante un giorno sbuca niente meno che Ahmet il Tempistico, lasciando così supporre una parentela fra lui e il Santo. C’è il sublime, fumoso e buio caffè sul Bosforo nel quale il liquore raki corre a fiumi ed è vietato dire cose vere. E, naturalmente, c’è Hayri Irdal – alla congiunzione di ogni menzogna e di ogni possibilità umana – in un romanzo che è certo anche una satira della burocrazia e della stupidità, ma che ti trascina per la sua saggezza fuori di ogni paradigma e il suo divertimento.