la Repubblica, 19 dicembre 2014
Lina Bo Bardi, l’architetta, giornalista romana che scelse il Brasile come patria. La donna che non ha «mai voluto essere giovane» solo «avere Storia. A venticinque anni volevo scrivere memorie, ma mi mancava la materia» viene raccontata al Maxxi di Roma a cent’anni dalla sua nascita
Lina Bo Bardi ha dovuto attendere che si compisse il centenario della nascita perché il suo nome uscisse da un ristretto novero di persone – architetti, storici dell’architettura e dell’arte, designer – e acquisisse considerazione anche oltre quei circoli. Niente di clamoroso, per carità. Ma comunque sono arrivate per lei alcune mostre (alla Triennale di Milano e un’altra, che si apre oggi al Maxxi di Roma, fino al 15 marzo 2015, curata da Margherita Guccione insieme a Sarah Catalano ed Ernesta Caviola e in collaborazione con Domus) e si sono svolti convegni (alla Sapienza di Roma). Questo in Italia.
Perché in Brasile, dove Lina Bo Bardi, architetta dalla forte impronta di genere e tante altre cose oltre l’architettura – giornalista, fondatrice e direttrice di periodici, illustratrice, partigiana comunista, scenografa, artista in senso pieno –, si trasferisce nel 1946, è assai popolare, avendone in diverse maniere catturato l’anima e la creatività. «Quando si nasce, non si nasce niente», ha scritto in un singolare curriculum letterario che compare in un catalogo delle sue opere. «Non sono nata qui (in Brasile, ndr), ho scelto questo posto per viverci. Per questo, il Brasile è due volte il mio Paese, è la mia “Patria di Scelta”».
Lina Bo Bardi è nata a Roma nel dicembre del 1914 ed è morta nel 1992. Il suo nome è Achillina Bo, famiglia borghese, vacanze a Bordighera e poi a Nizza e a Cannes. «Non ho mai voluto essere giovane», scrive, «quello che volevo era avere Storia. A venticinque anni volevo scrivere memorie, ma mi mancava la materia». Dopo il liceo artistico s’iscrive ad Architettura, dominata da professori che più marcati d’accademismo fascista non si potrebbe – Marcello Piacentini, Gustavo Giovannoni, Arnaldo Foschini. I quali chissà che cosa avranno pensato esaminando la tesi di questa ragazza bruna, sguardo profondo, lineamenti asciutti, una delle pochissime loro allieve. Nel 1939 Lina si laurea discutendo il progetto di un edificio per madri nubili. Argomento sconcertante in sé e condensato in forme ispirate ai canoni del razionalismo europeo, cioè agli antipodi degli insegnamenti ricevuti. Il voto finale non è altissimo, ovviamente: 106. Divenuta architetta, Lina Bo si trasferisce a Milano, dove apre uno studio insieme a Carlo Pagani e inizia a collaborare con Gio Ponti. Oltre alla progettazione si occupa della redazione di Stile e Domus. Ma contemporaneamente scrive per Grazia, Illustrazione italiana, Bellezza, Vetrina e Negozio, Cordelia, Tempo. Scrive di quel che conosce meglio, l’architettura, ma il suo angolo visuale è la vita quotidiana, l’abitare. I suoi pezzi sono corredati da disegni e lei predilige gli interni, il loro comfort e la loro funzionalità, senza indulgere in frivolezze, in sprechi, ma elevando a ragionamento architettonico la qualità del vivere.
Di Domus Lina diventa vicedirettrice. Ma, finita la guerra e allargate le sue conoscenze, riceve da Elio Vittorini, per conto di Milano Sera, l’incarico di compiere un viaggio nell’Italia distrutta dalla guerra. Si fa accompagnare da Pagani e dal fotografo Federico Patellani e mette insieme dei reportage, alcuni dei quali pubblica su A – Cultura della vita, un vero rotocalco di 16 pagine che lei fonda insieme a Pagani e a Bruno Zevi nel 1945. Lo stampa l’Editoriale Domus di Gianni Mazzocchi, che subito dopo farà nascere L’Europeo e che finanzierà anche Il Mondo di Mario Pannunzio. E di questi due campioni dell’informazione, A custodisce qualche embrione nella grafica e nella titolazione. Lina cura i disegni, realizza vignette e, appunto, i reportage dall’Italia bombardata. Non si parla solo di architettura, ma quando se ne parla lo si fa pensando a chi abiterà gli edifici, domina una divulgazione di stampo manualistico, retta dall’idea che di una casa “razionale” si avvantaggeranno soprattutto i ceti più deboli. «Fu allora», scrive, «quando le bombe demolivano senza pietà l’opera e il lavoro dell’uomo, che capimmo che la casa deve essere per la vita dell’uomo, deve servire, deve consolare e non mostrare, in un’esibizione teatrale, le vanità inutili dello spirito umano».
Ma un altro passaggio attende Lina, il matrimonio con Pietro Maria Bardi, gallerista, critico e storico dell’arte. Bardi durante il fascismo, al quale aderisce, è il portavoce della corrente razionalista in architettura, che si riconosce nel Miar, un movimento cui fanno capo Giuseppe Pagano, Gaetano Minnucci, Gino Pollini, Adalberto Libera e altri. Nel 1931, racconta Carlo Melograni nel libro Architettura italiana sotto il fascismo, viene organizzata una mostra nella galleria di Bardi, il quale allestisce un “tavolo degli orrori”, un collage fatto di frammenti di architetture. Non è difficile riconoscere le magniloquenti opere di Piacentini e Giovannoni, fra gli altri. I professori romani di Lina.
Il matrimonio è anche il coronamento di una sintonia culturale. Che per Lina segna l’inizio della sua seconda vita. Bardi è invitato in Brasile per mettere in piedi un museo d’arte e lei lo segue. L’incontro con il Brasile libera le energie che Lina ha accumulato in Italia e il suo senso concreto dell’architettura viene messo a contatto con un mondo pieno di contraddizioni sociali, ma culturalmente vorace, in cui la natura condiziona in modo formidabile l’opera dell’uomo. Nulla di ciò che ha avviato fra Roma e Milano si disperde: l’impegno sociale, la febbrile attività creativa, dal design d’interni al progetto urbano. Nel 1951 realizza la Bardi’s Bowl, una poltrona composta di una calotta semisferica imbottita di caucciù e infilata su un supporto metallico: l’atto del sedersi è all’insegna della disinvoltura più spinta. Lo stesso anno, a San Paolo, costruisce per sé e il marito la Casa di vetro, una palafitta in cui la zona giorno è integralmente rivestita di una vetrata. Nel 1957 inizia il cantiere del Museo d’Arte di San Paolo, al quale lavora per undici anni, un grande parallelepipedo di cemento e vetro sospeso su pilastri laterali: edificio fantasioso e leggero nell’assoluta linearità delle forme, un museo dal forte carattere didattico, con teatri e auditorium, e dall’allestimento innovativo (i quadri sono sistemati su lastre di cristallo fissate su blocchi di cemento grezzo).
Il catalogo delle opere di Lina Bo Bardi si arricchisce e spazia dalle abitazioni private al piano di recupero del centro storico di Bahia, dalle mostre alle scenografie teatrali e cinematografiche. Lina è fra le protagoniste della scena brasiliana. Poi fra il 1977 e il 1986 realizza un grande centro culturale e ricreativo nella Fabrica da Pompeia, uno stabilimento industriale dismesso, dove organizza teatri, biblioteche, laboratori fotografici, studi musicali e per la danza e anche campi di basket. È forse la sua opera più impegnativa, quella che mira senza indugi all’idea di architettura che ha sempre coltivato, un’arte alla continua ricerca del rilievo sociale di ciò che si allestisce.