La Stampa, 19 dicembre 2014
Sarà vera strage o dobbiamo credere a quello che ci raccontano tutti i «buonisti», che gli alberi di Natale sono abeti coltivati solo a quel fine, un po’ come i ribes, i lamponi & Co?
Sarà vera strage o dobbiamo credere a quello che ci raccontano tutti i «buonisti» (sempre più numerosi e sempre meno sinceri…), che gli alberi di Natale sono abeti coltivati solo a quel fine, un po’ come i ribes, i lamponi & Co? Trattare una pianta di abete come una pianta di mirtillo, dal mio punto di vista, non è corretto: hanno due storie differenti e vivono due diversi «percorsi». I grandi ammaliatori svedesi ci insegnano che possono essere recuperati e fatti rivivere sotto forma di compost: un destino certamente regolare e sostenibile per un mondo che negli alibi e nelle belle etichette ripone speranze e, spesso, solide fondamenta.
Emblema ipocrita
Per chi volesse comunque avere un «suo» albero, sarebbe meglio se provenisse dallo sfoltimento di piantagioni già esistenti, sempre che fosse uno sfoltimento necessario al buon crescere dei boschi ed eseguito in modo sapiente. Soprattutto, siamo sicuri di doverlo proprio fare questo albero di Natale? Dobbiamo proprio renderlo un agghindato ed ipocrita emblema di una società sempre più virtuale? In fondo, che cosa c’è di natalizio nel torturare un piccolo albero, incapsulandogli la punta e pressandogli le radici in una pseudo-terra? Saranno più di vent’anni che ho smesso di avere alberi di Natale e non ne sento assolutamente la mancanza. Anzi...
Come nasce l’usanza
Pare che l’usanza, come oggi la conosciamo, sia nata a Tallin, in Estonia, a metà del Quattrocento: un grande abete rosso decorato con fiori di carta e frutta secca. Una tradizione nata nelle fredde foreste del Nord, una specie di rito pagano, che con le aride e secche terre di Betlemme, almeno all’origine, ha ben poco a che fare… Soltanto molti secoli dopo l’abete è diventato uno dei simboli per eccellenza del Natale cristiano, grazie all’opera, sempre secondo gli storici, di principesse prussiane, duchesse tedesche ed arciduchesse d’Austria: affascinate da questa tradizione, iniziarono a diffonderla nei loro castelli e nei loro borghi. Pare che in Italia la moda sia stata lanciata dalla Regina Margherita, tedesca da parte di madre e grande amante di montagne, neve ed… abeti. Vite evidentemente parallele quelle della pizza e dell’abete: così come la famosa pizza «margherita», sempre grazie a lei, l’abete ebbe un tale successo da contendere il primato al popolare e mediterraneo presepio.
Lasciatelo all’aperto
Un consiglio per coloro che non possono fare a meno di abeti «vivi», con le loro : la scelta migliore sarebbe quella di collocare l’albero all’esterno, esposto al freddo ed alla pioggia, ma se proprio non è possibile (e se proprio ci si ostina a volere l’albero al coperto ed in casa…) bisogna fare attenzione ad annaffiarlo regolarmente, lasciando sempre un po’ d’acqua nel sottovaso. Termosifoni e caminetti è meglio che siano il più lontano possibile ed anche luci, candeline & Co… In Germania, in Inghilterra ed in alcuni Paesi del Nord, i crudeli torturatori di alberi si sono da un po’ di tempo scatenati: non soddisfatti del tradizionale abete rosso, hanno voluto sfogare la gioia «botanica» del Natale anche sul bellissimo abete del Caucaso (Abies nordmanniana), i cui aghi lunghi ed appiattiti resistono al calore dei nostri salotti. Anche l’abete bianco (Abies alba) non è stato risparmiato: anche questa pianta che in natura sarebbe destinata a diventare un albero enorme e longevo (come tutte le conifere), che starebbe molto bene negli arboreti e, meglio ancora, nei suoi luoghi d’origine.
Terra fresca e umida
Nelle nostre regioni gli abeti amano posti freschi, di montagna, detestano i terreni poco drenati e mal sopportano i giorni delle canicole. Lo sa bene chi è stato vittima della morìa di abeti dell’inizio millennio, dovuta, a detta dei forestali, al manifestarsi del funesto «buco dell’ozono» ed al relativo caldo terribile del 2003. Si assistette ad una vera ecatombe. Gli abeti sono piante di montagna, e, come i suoi amici «montanari», gli ippocastani, i lillà e tanti altri meravigliosi alberi, amano terre fresche ed umide e odiano le afe, per loro letali.