la Repubblica, 19 dicembre 2014
Facebook propone un algoritmo per farci più belli e tutti si arrabbiano. Ma fingiamo di ignorare che nessun automatismo avrà mai la nostra pazienza nello spingere in fuori lo zigomo, celare abilmente il cedimento epidermico o contorcerci in posizioni che millantino la presenza di una qualche muscolatura. Non è una bacchetta magica: migliorerà solo l’illuminazione e il contrasto
È la più temibile fiaba del ventunesimo secolo: il bambino si avvicina al re e, sorvolando su particolari secondari quali la sua nudità, strilla «Ma non somigli alla foto profilo su Facebook!». È l’unica convenzione sociale rimasta sacra nell’era in cui la maleducazione si è fatta format televisivo, l’unico comandamento che non necessiti di divulgatori: non farai notare al tuo prossimo che anche lui si ritocca le foto per i social.
Quindi, quando il Wall Street Journal ha annunciato un algoritmo di miglioria automatica delle foto su Facebook, abbiamo subito arringato il vicino di scrivania: è uno scandalo, quanta superficialità, questa versione perfetta di noi stessi che ci riteniamo in dovere di proporre al mondo è foriera di nevrosi e d’infelicità. Lui ha annuito grave, evitando di farci notare che gli avevamo chiesto di togliere i tag da tutte le foto non riuscite della cena aziendale prenatalizia.
La sera, a casa, abbiamo continuato la predica ai figli, che educhiamo a valori profondi quali la bellezza interiore: ora anche il ritocco automatico, dove andremo a finire. I minorenni hanno caritatevolmente evitato di rimarcare quante volte si sono sentiti rispondere che non potevamo aiutarli con la versione di greco, giacché la nostra concentrazione era assorbita dal duecentesimo tentativo di selfie, il minimo necessario per arrivare al selfie socializzabile, quello in cui sembreremo una versione di noi stessi più giovane di dieci anni e più magra di cinque chili.
Come tutte le nuove opzioni, Facebook la implementa un po’ alla volta, forse non la troverete ancora sulla vostra bacheca. Ma, già da come la sintetizza il Wall Street Journal, si capisce che è perdibile. Sì, si parla di “bacchetta magica”, ma è una metonimia suggestiva solo per chi non sia abituato a ritoccarsi le foto (cioè per chi viva su Marte o sia un frate trappista): la bacchetta magica è da sempre il logo del fotoritocco di Instagram, piattaforma fotografica di proprietà di Facebook. C’è scritto anche che si può disattivare, e a quel punto il social network non ti proporrà più di intervenire sulle tue foto. Quindi, simulando indignazione nonché un debole per il realismo non magico, abbiamo annunciato che naturalmente la disattiveremo, che non vogliamo interventi sulle nostre foto, siamo come siamo, usati, di seconda mano, e non ci renderemo ridicoli fingendoci splendidi splendenti.
E, mentre ci affanniamo a citare la Magnani che chiedeva alla truccatrice di non nasconderle le rughe, fingiamo di non sapere che quella bacchetta non è magica: migliorerà solo l’illuminazione e il contrasto. Nulla di utile, e forse qualcosa di dannoso: la penombra è miracolosa per la riuscita di certe immagini, possibile che Facebook non abbia imparato niente da Blanche Du Bois che velava le lampade? Qualcuno porti urgentemente Mark Zuckerberg a teatro a vedere Un tram che si chiama desiderio, ne va della sua competenza nell’unico settore che interessi alla clientela dei social network: la fotogenia.
Fingiamo di ignorare che è diventato impossibile piacersi nelle foto scattate da altri, da quando abbiamo capito che nessuno conosce i nostri punti deboli come noi; e che nessun algoritmo avrà mai la nostra pazienza nello spingere in fuori lo zigomo, celare abilmente il cedimento epidermico, simulare sorpresa davanti allo scatto o contorcerci in posizioni che millantino la presenza di una qualche muscolatura. Non affideremmo mai a un meccanismo automatico di interventi blandi una delle duecento foto non riuscite: scatteremo la duecentounesima, che sarà quella buona. Quella in cui, finalmente, non saremo noi stessi.