19 dicembre 2014
Gli ovuli non fecondati possono essere brevettati, ovvero comprati, venduti, usati per sperimentazioni nella ricerca sulle malattie, insomma possono diventare oggetto di sfruttamento scientifico, commerciale o industriale. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Ue
Corriere della Sera,
Un ovulo umano non fecondato non è un uomo, non potrà esserlo mai, né potrà mai essere assimilato a un embrione, anche se ha iniziato a svilupparsi in laboratorio grazie alla partenogenesi, cioé a quelle tecniche chimiche ed elettriche che non prevedono il ricorso agli spermatozoi: questo ha sentenziato ieri la Corte di giustizia europea. E soprattutto ha decretato un’altra cosa: che quello stesso ovulo (o «partenote», come viene appunto chiamato nel caso di una partenogenesi), non avendo la potenzialità di uno sviluppo umano, può essere «in linea di principio “brevettato” da un’azienda», comprato, venduto, usato per sperimentazioni nella ricerca sulle malattie, insomma può diventare oggetto di sfruttamento scientifico, commerciale o industriale.
I giudici si sono mossi sul confine del mistero, lo stesso mistero che nel 2011 li aveva indotti a sentenziare nel senso esattamente opposto: a dichiarare cioè che la nozione di «embrione umano» comprende gli ovuli umani non fecondati spinti a dividersi e a svilupparsi attraverso la partenogenesi. E che questi stessi ovuli, perciò, devono essere protetti secondo la normativa europea che difende i prodotti di invenzioni biotecnologiche: niente brevetti, niente compravendite, niente ricerche sperimentali. Tre anni dopo, ecco il «contraccolpo», che sembra aprire un po’ di più la porta anche alle indagini sulle cellule staminali, alla ricerca chimico-farmaceutica sulla tossicità di certi prodotti nell’organismo umano (il partenote funge in sostanza da cavia), e forse ad altre ricerche più riservate nel campo dell’industria cosmetica, di cui si è sempre vociferato.
La sentenza di ieri tocca ancora una volta il nucleo primario della vita biologica, riguarda anche temi di etica, filosofia, religione, e già divide i ricercatori: tutti, «laici» e no, concordano sul fatto scontato che termini come ovulo non fecondato, partenogenesi, partenote, indicano che un certo organismo esiste biologicamente, ma quella sua esistenza non deriva dall’unione del principio femminile e maschile. I ricercatori che si riconoscono nell’etica cristiana protestano: «È abnorme brevettare qualcosa che deriva dalla manipolazione del corpo umano», dice Francesco D’Agostino, presidente emerito del Comitato nazionale per la Bioetica.
Già indecisa a tutto sui temi politico-economici, per forza di cose l’Europa lo è ancora di più su questi temi etici e scientifici. Quest’ultima sentenza, dice per esempio il genetista Giuseppe Novelli rettore dell’Università Tor Vergata di Roma, «teoricamente rischia di incrementare il commercio illegale di ovociti. Ora su quanto sentenziato dalla Corte europea di giustizia potrà pronunciarsi ogni Stato membro, che dovrà recepirne il pronunciamento». E a quel punto, «ogni nazione potrà definire le sue condizioni: il problema è giuridico, non scientifico, ed è stato sollevato nel 2011, con la prima sentenza che vietava la possibilità di brevettare le cellule staminali». Nel frattempo, spiega ancora il genetista, «un’azienda inglese che conduceva esperimenti sulla clonazione di cellule a scopo scientifico ha posto la questione: tecnicamente, infatti, un ovocita non fecondato non potrà mai diventare embrione e quindi sarebbe brevettabile. Il problema è stato posto all’Europa che ora si è espressa». Unico problema: «Si tratta di una sentenza generica».
Luigi Offeddu
Corriere della Sera
In quale modo l’ovulo si evolve in un individuo?
Per poter dare luogo a un essere vivente, un ovulo, cioè una cellula-uovo femminile, deve andare incontro a tre ordini di processi: l’attivazione, la fecondazione e la maturazione vera e propria. Nel primo processo l’ovulo «si riscuote», si sveglia e si mette a disposizione per una chiamata alla riproduzione. Nel secondo riceve il contributo genetico portato dallo spermatozoo e nel terzo dà inizio a quella serie di processi che, se tutto va bene, condurranno alla produzione di un embrione e poi a quella di un feto e infine di un neonato. In condizioni normali questi tre processi vanno il più delle volte di pari passo, così che quasi non li distinguiamo. Ma alla scienza non sfugge niente e negli anni li ha individuati e disaccoppiati. In certi casi è anche in grado di separarli. Si può per esempio attivare un ovulo, senza fecondarlo, grazie a un processo denominato partenogenesi.
Che cos’è la partenogenesi?
Si tratta di un fenomeno frequente in alcune specie, raro o molto raro in altre e praticamente inesistente in altre ancora, attraverso il quale un ovulo si attiva e inizia il suo processo proliferativo in assenza di fecondazione, cioè senza l’intervento di un gamete maschile. Mancando questo, il Dna contenuto da questo ovulo attivato non è capace di dare vita a un organismo umano con le carte in regola. Insomma, non darà mai luogo a un vero essere umano.
Ma perché allora si induce la partenogenesi?
Perché questo ovulo attivato cresce per qualche tempo e si riempie di cellule che possono essere utilizzate come fonte di cellule staminali, per esempio a scopo di studio. C’è ancora tanto da capire dei processi che avvengono prima, durante e dopo, nelle cellule staminali, che ogni approfondimento conoscitivo di tali processi è benvenuto.
Potrebbero essere poi utilizzate a scopo terapeutico le cellule staminali prodotte in tale maniera?
No, perché non avrebbero il corretto corredo genetico e produrrebbero tessuti difettosi.
Ma l’ovulo così attivato potrebbe portare a un organismo umano?
No, a maggior ragione, perché per fare un intero organismo occorrono geni e meccanismi genetici che tale ovulo non possiede. Non c’è il rischio quindi che tale cellula possa condurre alla nascita di un individuo. Questo tacita molti scrupoli morali e apre la strada a un’utilizzazione applicativa di tale cellula. Ora la Corte della Ue, ribaltando una sua precedente decisione, afferma che tale cellula attivata è brevettabile, cioè utilizzabile in condizioni protette da tentativi più o meno plateali di imitazione.
È giusto ritenere brevettabile tale cellula?
La questione non è di natura scientifica ma giuridica, oltre che morale. Si può brevettare qualcosa di non controverso dal punto di vista etico che abbia elementi di originalità, che costituisca cioè un prodotto dell’ingegno e della industriosità di qualcuno. In sé e per sé l’ovulo non è brevettabile, ma una sua trasformazione artificiale lo è.
L’attivazione di cui stiamo parlando rappresenta una vera trasformazione artificiale e originale?
La Corte Ue pensa di sì e in tale decisione non vedo niente di scandaloso, anche se altri la possono pensare diversamente. Il punto, casomai, è se tutto questo è utile a qualcosa di concreto. La risposta a tale quesito si avrà in futuro, per questo conviene provare; alla peggio sarà stato inutile.
A che può servire infine tutto questo?
A studiare in dettaglio e con calma che cosa succede in una cellula staminale, cioè che cosa la fa diventare staminale, che cosa la mantiene tale e che cosa deve cambiare perché smetta, a comando, di essere staminale e si avvii a divenire quello che noi vogliamo che divenga. Le cellule staminali costituiscono una grande speranza della medicina di domani, ma quello che sappiamo con certezza dei processi che le caratterizzano è ancora molto poco. E ci impedisce di fatto di farne quella applicazione clinica di vasta portata che tutti ci auguriamo. E tali studi possono essere fatti solo su autentiche cellule staminali umane. Fino adesso questo non era stato possibile e la decisione di oggi potrebbe condurre a sviluppi molto promettenti, se non inaspettati. Il bello della scienza è che ci riserva sempre qualche sorpresa. Speriamo che sia così anche in questo caso e che la sorpresa sia positiva
Edoardo Boncinelli
Il Sole 24 Ore
La decisione della Corte di giustizia Ue, che autorizza la brevettabilità di cellule uovo umane non fecondate e quindi di ciò che può essere derivato da esse, ha rimediato al danno che rischiava di creare all’Europa una precedente sentenza della stessa Corte.
Nel mese di ottobre del 2011, infatti, fu negata la possibilità di brevettare embrioni umani, quindi anche l’uso commerciale dei prodotti derivati da ricerche su embrioni umani, includendo però nella definizione di «embrione umano» anche le cellule uovo stimolate a svilupparsi senza fecondazione (cioè partenogeneticamente).
Va ricordato che in biologia, quindi da un punto di vista scientifico, per embrione umano s’intende il prodotto della fecondazione della cellula uovo con lo spermatozoo.
Ovvero, un embrione umano per essere tale deve essere in grado di formare un organismo completo, che nasce e diventa una persona autonoma: in teoria, dopo la nascita di Dolly, un embrione umano con queste caratteristiche si potrebbe ottenere anche senza fecondazione, come avviene quando appunto si fa un trasferimento nucleare o clonazione.
Ma una cellula uovo indotta a dividersi con stimoli artificiali non è in grado di produrre un organismo umano completo e vitale. Per cui nella sentenza del 2011 vi erano evidenti difetti nel riferimento al quadro di processi biologici che si andava a normare.
Con la conseguenza di penalizzare le ricerche innovative e di potenziale valore commerciale in Europa, rispetto al resto del mondo, nella misura in cui queste ricerche avessero come è prevedibile prodotto ricadute in chiave di strumenti di interesse terapeutico, o più in generale economicamente sfruttabili.
La sentenza della Corte è stata costruita a partire da un rinvio dell’Alta Corte di Giustizia di Inghilterra e Galles, a fronte di un contenzioso tra l’International Stem Cell Corporation (ISCO) e l’Ufficio Brevetti del Regno Unito sul tema della brevettabilità di processi relativi all’uso di cellule uovo umane attivate partenogeneticamente.
Da queste cellule uovo si possono ottenere cellule staminali embrionali umane, che potrebbero presto o tardi avere un formidabile potenziale terapeutico.
La corte anglosassone chiedeva in pratica se i derivati embrionali umani ottenuti senza fecondazione dalle cellule uovo, che non possono diventare individui umani completi, andassero trattati come gli embrioni umani ottenuti per fecondazione, che si sviluppano come individui completi.
La decisione è inequivocabile
Soltanto un embrione umano che ha un’intrinseca capacità di svilupparsi in un essere umano, ricade sotto i divieti della sentenza del 2011. E il mero fatto che una cellula uovo umana sia stata attivata partenogeneticamente (senza fertilizzazione) a svilupparsi ovvero a dividersi dando luogo a staminali embrionali, non ne fa un embrione umano.
Perché non può svilupparsi in un embrione umano. In pratica, la corte anglosassone deve a questo punto soltanto stabilire che l’oggetto per il quale l’International Stem Cell Corporation chiede la protezione brevettuale all’ufficio brevetti britannico, non possa svilupparsi in un organismo umano.
Si tratta di una sentenza storica, che avvicina la legislazione europea a quella dei paesi scientificamente più avanzati e che consentirà alla ricerca scientifica nel vecchio continente di tornare competitiva e di interesse anche in termini di investimenti industriali.
Senza dimenticare che consentirà agli enti regolatori europei, come l’EMA (European Medicines Agency, ndr) e per l’Italia l’AIFA (Angenzia italiana del farmaco, ndr), di sedere ai tavoli internazionali che stanno mettendo a punto i criteri migliori per valutare la sicurezza e l’efficace delle terapie rigenerative, per malattie gravi come Parkinson o diabete, che presto o tardi arriveranno ai letti dei malati.
Il Sole 24 Ore
La sentenza della Corte di giustizia europea che stabilisce (rovesciando un precedente verdetto del 2011) che un ovocita umano non fecondato può essere brevettato non ha alcun carattere giuridico né scientifico. Ha una valenza esclusivamente bioetica.
E che i giudici non se ne siano accorti mi pare grave. Se poi se ne fossero davvero accorti, è più che grave, direi scandaloso, perché sarebbe ormai la prova provata che il valore fondamentale della biomedicina (quello della gratuità) è stato travolto dal valore fondamentale del mercato, quello del profitto. È davvero preoccupante.
Credo sia bene perciò mettere le cose in maniera più chiara per comprendere la posta in gioco. Qui non è in ballo il rispetto che si deve alla scienza – un rispetto che per me è sacrosanto -, né meno che mai il rispetto a quel peculiarissimo e fondamentale lavoro che è quello degli scienziati, senza dubbio indispensabili per il progresso umano. È che come i medici operano prima per guarire il malato e poi (solo poi) per incassare il dovuto onorario, così gli scienziati operano e devono operare prima per allargare l’orizzonte del sapere umano, poi (e solo poi) per ottenere la giusta ricompensa per il lavoro svolto. L’etica della medicina e della scienza (cioè la bioetica) viene prima della “bioeconomia”. Questo è l’errore di questa sentenza: si antepone la bioeconomia alla bioetica.
Il principio in gioco in questa vicenda è infatti esclusivamente etico: il corpo umano, in ogni sua parte, non può né deve mai essere occasione di speculazione e di lucro. Come non può essere comprato o venduto il corpo nella sua interezza (se non riattivando l’aberrazione storica della schiavitù) così nemmeno un organo, nemmeno un dente, nemmeno una singola cellula può essere comprata e venduta, se non umiliando quella persona da cui proviene l’organo, il dente o la singola cellula vincolandola ai meccanismi economici del mercato: meccanismi che hanno una loro legittimità sì, ma solo quando hanno per oggetto le cose (e peraltro non una legittimità totale, dato che siamo tutti consapevoli che alcuni beni, come quelli ambientali e spesse volte anche quelli artistici,vanno ritenuti “fuori commercio”), ma che non hanno legittimità alcuna quando si pretenda che a loro oggetto ci sia la stessa vita umana. Credo sia doveroso non lasciarsi fuorviare da quanto scrivono i giudici europei e cioè che si possono brevettare solo quegli ovociti (ovviamente manipolati) che non potrebbero mai svilupparsi in embrioni umani potenzialmente capaci di essere inseriti in utero femminile e portati fino alla nascita. L’oggetto del contendere non è qui la difesa degli embrioni (che va promossa anche quando la loro creazione in provetta non avvenga a fine di lucro); è piuttosto la difesa della vita contro la pretesa che da essa e dalla sua manipolazione tecnologica possano derivare profitti economici, in linea di principio incalcolabili. I brevetti, infatti, si giustificano (a volte con molta fatica!) quando difendono pure creazioni dell’ingegno umano, non quando l’ingegno umano mosso dall’interesse economico cerca di penetrare nei meccanismi del vivente per alterarli e per trarre profitto esclusivo da queste alterazioni. La ricerca scientifica e la sua nobiltà dipendono esclusivamente dalla sua gratuità, intesa nel senso che nessun essere umano possa essere escluso dalle conoscenze acquisite dagli scienziati, né dai potenziali benefici che da queste conoscenze possano derivare. Brevettare una cellula umana, sia pure dopo averla sottoposta a sofisticate manipolazioni di carattere biotecnologico, significa invece esattamente il contrario: inserire nel mondo sociale la forma più estrema dell’esclusione, che non è quella economica o etnica, ma quella che nega la possibilità stessa di sapere.
Non lasciamoci tentare dall’ultimo sofisma, quello di chi insiste nel dirci che la scienza per progredire ha bisogno di enormi quantità di denaro, che solo la brevettazione può garantire. Non solo la scienza, ma tutti gli altri grandi sistemi sociali hanno bisogno di danaro: ne ha bisogno la scuola, la sanità, lo sport, la tutela dell’ordine pubblico, la promozione dei beni culturali. Conosciamo quanto sia difficile reperire risorse per ciascuno di questi sistemi. Ma la loro autenticità riposa sul medesimo principio: essi vanno offerti a tutti (a seconda delle esigenze di ciascuno) e devono essere considerati condivisi o, almeno di principio, condivisibili. È solo il danaro (e il sistema che lo governa) che sfugge a questa logica. Non dimentichiamocelo mai.
arcivescovo e presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia