la Repubblica, 19 dicembre 2014
«È stato vergognoso mollare così la Carocci. Ero presidente dell’Associazione del Mulino quando venne acquistata: una grandissima soddisfazione. E ora, che figura ci facciamo? Nel giro di pochi anni, da paladini ci siamo trasformati in affossatori. Probabilmente l’operazione è stata fatta in cambio di un cospicuo assegno che ci ha permesso di ricapitalizzare il Mulino e creare la nuova società. I soldi ci sono per noi e non per la Carocci. Mi sembra osceno». Parla Luigi Pedrazzi, l’unico sopravvissuto tra i fondatori della casa editrice di Bologna
«Mi chiede se sono stato lasciato solo? Spero di no. Ma io sono un inguaribile ottimista». Parla Luigi Pedrazzi, l’unico sopravvissuto tra i fondatori del Mulino. E l’unico tra gli illustrissimi soci che scelga di dare voce pubblica a un disagio. Perché la notizia non è solo quella pubblicata nei giorni scorsi: la crisi dei due marchi editoriali controllati dalla stessa società finanziaria Edifin, con il licenziamento di 17 dipendenti (con cassa integrazione a zero ore) nel caso di Carocci e lo scorporo della redazione nella nuova società Edimil nel caso del Mulino. La notizia è anche l’assordante silenzio con cui lo storico cenacolo bolognese sta seguendo il terremoto editoriale. Escluse rare eccezioni, non un attestato di solidarietà è arrivato da quello che è stato considerato il più prestigioso laboratorio della cultura politica del centrosinistra. Non un segnale di attenzione, per redazioni sofferenti. E se i dipendenti di Carocci (già messi alla porta) possono essere confortati dall’appello pubblico di autori come Asor Rosa, De Mauro e Prosperi, i redattori mugnai hanno scritto lettere preoccupate ai più bei nomi dell’intellighenzia progressista che costituiscono l’Associazione del Mulino – da Giuliano Amato a Romano Prodi – ma senza ricevere risposta. Solo poche mail e l’abbraccio dell’ottantasettenne Pedrazzi, accolto ieri mattina in casa editrice come un salvatore.
Professor Pedrazzi, come si sente?
«Minoranza. E non mi piace esserlo. Ma finora su settanta soci del Mulino solo cinque o sei hanno ritenuto di dover dire una parola di principio».
L’amministratore delegato Giuliano Bassani vi ha consultato?
«No. L’associazione del Mulino – che ha il controllo della finanziaria che controlla a sua volta Carocci e Mulino – non è stata informata dell’operazione. E già questo è un fatto grave: penso si tratti di questioni che debbano essere discusse anche tra noi soci».
Però non è singolare che lei sia l’unico a porre la questione in pubblico? Welfare, diritto del lavoro, riforme: sono le grandi questioni dell’officina bolognese.
«Che devo dire? Man mano che le cose sono andate peggiorando, abbiamo dovuto prendere atto che non tutti sono cuor di leone, pronti alla battaglia. Alcuni vogliono andare molto in alto, scalare l’Everest, l’Europa o l’Unesco. Altri sono presi da interessi culturali specifici. Mi sembra che manchi l’etica di cui parlava Weber».
Romano Prodi l’ha sentito?
«No, non ancora. Credo però che segua il destino del Mulino con affettuosa partecipazione».
Lei cosa vorrebbe dire a Bassani?
«Che è stato vergognoso mollare così la Carocci. Ero presidente dell’Associazione del Mulino quando venne acquistata: una grandissima soddisfazione. Ricordo ancora la premura di alcuni soci: mi raccomando, valorizzatela... E ora, che figura ci facciamo? Nel giro di pochi anni, da paladini ci siamo trasformati in affossatori. Probabilmente l’operazione è stata fatta in cambio di un cospicuo assegno che ci ha permesso di ricapitalizzare il Mulino e creare la nuova società. I soldi ci sono per noi e non per la Carocci. Mi sembra osceno».
Secondo alcuni la new company è la salvezza economica del Mulino: se non si fa così si muore.
«Ho i miei dubbi, comunque ne avrei voluto saperne di più. Che significa questa nuova società? Perché mettere lì 14 redattori? Si tratta di un passaggio verso l’esternalizzazione, come temono i dipendenti? C’è poi una questione di contenuti».
Quale?
«Tre o quattro di questi redattori sono abili nel fare un genere di libri che costituisce un terzo del fatturato del Mulino. Volumi finanziati da imprese o istituti che poi in casa editrice trovano una forma culturale. Ma attenzione: non è che pubblichiamo tutto quello che ci viene proposto da un riccone qualsiasi. C’è una selezione, poi una cura editoriale. Perché siamo il Mulino».
Teme che si perda in qualità?
«Certo. E guardi che non sono mai stato insensibile ai soldi e al fatturato. Il problema è trovare una misura tra ragioni di mercato e ragioni culturali. Ma mi sembra che Bassani si stia muovendo con insensibilità rispetto alla stessa storia del Mulino. Storia che è anche presente».
Avete appena festeggiato i sessant’anni.
«Sì, ma forse per alcuni si è trattato solo di celebrare il passato, pensando che non conti più niente».
L’amministratore delegato l’avete nominato voi dell’Associazione.
«In teoria potremmo anche chiederne le dimissioni, ma dovrei avere la maggioranza, cosa che mi sembra difficile».
La crisi dell’editoria è grave. Le previsioni non incoraggiano.
«Sì, anche per questo avevo proposto varie soluzioni come rafforzare la diffusione nel Mezzogiorno e anche aprire alle donne: non è possibile che, con poche eccezioni, siamo ancora il più esclusivo club maschile d’Italia. Un terzo aspetto su cui insistere è l’apertura ai giovani che studiano in Asia, in America e in Europa: noi siamo troppo vecchi».
L’operazione della nuova società è stata avviata.
Che margine di intervento avete?
«Diventerà irreversibile alla fine di gennaio. C’è ancora tempo. Basta che qualcuno si svegli».