La Stampa, 18 dicembre 2014
Caso marò: in questi tre anni avremmo dovuto renderci conto del modo di procedere della giustizia indiana. Dovremmo invece riflettere sulle nostre azioni e le nostre omissioni, che ci hanno portato a questo punto prima creando il problema e poi contribuendo alla sua mancata soluzione
Malessere, contrarietà, irritazione. Sono i sentimenti suscitati non solo a livello politico-diplomatico, ma anche nella nostra opinione pubblica, dalla decisione della Corte Suprema indiana di respingere le due richieste presentate dai difensori dei nostri sottufficiali.
Sono sentimenti giustificati, ma sono un po’ meno giustificabili la sorpresa e la delusione che vengono manifestate in queste ore, dovute come sono all’eccessivo ottimismo che si era diffuso nell’attesa della decisione dell’altro tribunale indiano. In questi tre anni avremmo dovuto renderci conto del modo di procedere della giustizia indiana, e soprattutto delle lentezze e dei rinvii al cui confronto quella italiana – per tanti versi deplorevole – risulta di una celerità e di un’efficienza straordinarie. Vale la pena, al riguardo, soffermarsi sulla motivazione che il presidente della Corte Suprema, H.L. Dattu, ha dato alla sua decisione negativa: i provvedimenti richiesti non potevano essere concessi in quanto non era stato ancora formulato un capo d’accusa. Il rigore basato sull’inefficienza!
Ma proprio perché a questo punto sarebbe assurdo sorprenderci della giustizia indiana, dovremmo invece riflettere sulle nostre azioni e le nostre omissioni, che ci hanno portato a questo punto prima creando il problema e poi contribuendo alla sua mancata soluzione.
Fa pensare, al riguardo, quello che l’ex ministro degli Esteri Frattini ha detto ieri al quotidiano «Avvenire», rivelando di essersi invano opposto alla legge che istituiva la possibilità di far scortare, in funzione antipirateria, navi civili da parte di personale militare. Frattini ha detto di avere allora ritenuto problematica questa soluzione data la mancata chiarezza delle regole d’ingaggio e ha aggiunto: «Certo, contractors israeliani o ucraini o albanesi costerebbero di più, ma così si spende meno, ma si impegna la bandiera italiana». Il sospetto che possa trattarsi di «senno di poi» non dovrebbe impedirci di ammettere che si tratta di un’osservazione inconfutabile, se pensiamo che ancora non sappiamo chi abbia deciso di fare entrare l’«Enrica Lexie» nel porto indiano.
Sono tanti gli interrogativi ancora irrisolti che si riferiscono a noi, e non agli indiani. Perché, approfittando della loro presenza in Italia fin dal primo dei loro «permessi», non si sono rinviati a giudizio in Italia Latorre e Girone (diciamo, per omicidio colposo)? In questo modo non farli ritornare in India non avrebbe configurato, data l’indipendenza della magistrature, una violazione degli impegni assunti dal governo italiano.
Ma la domanda più attuale, e quella su cui vorremmo tanto avere una risposta, è perché, nei mesi trascorsi dall’annuncio, il 24 aprile, di una «nuova strategia» non è stato avviato unilateralmente il procedimento dell’arbitrato previsto dalla Convenzione Onu sul Diritto del Mare.
Era certo logico, prima di avviare un procedimento dagli esiti incerti e comunque tutt’altro che rapido, sondare sul piano politico bilaterale la disponibilità indiana ad accettare una soluzione alternativa che avrebbe permesso la liberazione dei nostri militari. Concretamente, quella di spostare la responsabilità dell’incidente dai due militari in servizio, e come tali coperti da immunità funzionale, allo Stato sotto il cui mandato svolgevano le loro funzioni. Dal diritto penale indiano si sarebbe in questo modo passati al diritto internazionale, a una controversia fra Stati, da affrontare e risolvere secondo gli esistenti meccanismi sia giuridici che diplomatici.
Un tentativo andava certamente fatto, tanto più che il cambiamento di governo a New Delhi suggeriva una verifica sul nuovo contesto politico. Ed era anche legittimo, come ripetutamente ribadito dai nostri responsabili governativi, effettuare questa verifica attraverso canali riservati e con tutta la discrezione possibile. Ma non poteva, non doveva, trattarsi di una fase senza una data di scadenza, oltre la quale il passaggio all’avvio dell’arbitrato diventava automatico.
La sentenza della Corte Suprema fa temere che questa verifica non abbia portato alcun risultato. Fra l’altro, se è inevitabile accettare la tesi dell’indipendenza dei giudici che noi stessi rivendichiamo, il discorso cambia quando ci soffermiamo su quello che è stato il comportamento davanti alla Corte Suprema del rappresentante dello Stato indiano, il procuratore, che non è andato oltre una debole manifestazione di «disponibilità», ma non si è opposto alla linea intransigente del presidente della Corte.
Ma poi, chi ha effettuato la verifica sul piano politico? In che termini? Con chi? La discrezione va rispettata finché esiste una speranza di successo. Altrimenti sarebbe legittimo pretendere di sapere.
Infine, i tempi. Cerchiamo di non battere gli indiani con i nostri rinvii, le nostre dilazioni. Non può non lasciare perplessi ascoltare le parole pronunciate ieri alla Camera dal ministro degli Esteri Gentiloni. Testualmente: «Non possiamo escludere il pratico avvio dell’arbitrato… non sono decisioni che devono essere meditate, e non si possono prendere in mezza giornata».
In mezza giornata certo no. Ma in oltre sette mesi?