Corriere della Sera, 18 dicembre 2014
Così i soldi pubblici rovinano Venezia e Roma e cancellano l’identità storica. L’allarme in un libro di Salvatore Settis: la città dei Dogi è in agonia, non ha più memoria. Lo scandalo del Mose assomiglia a Mafia Capitale
Come mai i due maggiori episodi di corruzione di questi anni, il Mose e «Mafia Capitale», sono accaduti in due città, Roma e Venezia, che tanto hanno in comune: una bellezza struggente, una storia millenaria, ma anche, da vent’anni in qua, una grande permeabilità delle proprie istituzioni alla corruzione e al malaffare e leggi speciali che hanno riversato sulle due città fiumi di denaro pubblico? Pur non ponendosi direttamente questa domanda, Salvatore Settis ( Se muore Venezia, Einaudi) ci suggerisce una risposta. Questi disastri accadono quando una città perde la propria memoria e la propria identità. E le perde, aggiungo io, quando viene sedotta da un fiume di denaro pubblico che, anziché risolverne i problemi, vi diffonde la corruzione.
A Venezia le aziende alle quali lo Stato aveva incautamente assegnato il monopolio dei lavori di salvaguardia della laguna hanno poco a poco avvolto la città in una ragnatela che ha finito per soffocarla. Dall’ «acqua granda», l’alluvione che il 4 novembre 1966 devastò la laguna, lo Stato italiano ha trasferito a Venezia un fiume di denaro. Calcolato ai prezzi di oggi, 18,5 miliardi di euro, quasi il doppio di quanto il governo ha speso quest’anno per dare 80 euro al mese a dieci milioni di famiglie. A cinquant’anni di distanza, la maggiore delle opere che dovevano essere realizzate con quei soldi, le paratoie mobili del Mose appunto, non è ancora stata completata. Nel frattempo di quei 18,5 miliardi circa 2,5 (almeno secondo i calcoli illustrati da Giorgio Barbieri e dal sottoscritto in Corruzione a norma di legge, Rizzoli) sono finiti in rendite ingiustificate, che hanno alimentato trent’anni di corruzione. E a Roma, dopo essersi accollato i debiti accumulati fino al 2008, lo Stato, nei sei anni successivi, ha trasferito alla città altri 3,8 miliardi di euro. Matteo Renzi, il primo giorno del suo governo, sprecò un’occasione unica. Il Parlamento aveva appena bocciato il decreto «salva Roma»: bastava non ripresentarlo. Forse la corruzione si sarebbe arrestata sei mesi prima.
Venezia non fu l’unica città italiana a subire gli effetti dell’alluvione del 1966. I danni maggiori li subì Firenze, tant’è vero che per cercare di salvare dall’Arno libri e dipinti fu verso Firenze, non verso Venezia, che partirono migliaia di cittadini da ogni parte d’Italia. «La mia città si è sempre lamentata del fatto che, dopo l’alluvione, non ha mai avuto i soldi» ha detto Matteo Renzi. Perché a nessuno è mai venuto in mente di costruire un Mose sulle sponde dell’Arno per evitare nuove esondazioni? Perché Firenze, pur senza soldi pubblici e quindi senza corruzione, comunque è sopravvissuta, non peggio di Venezia?
In tre modi muoiono le città, scrive Settis: «Quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dei (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé e, senza nemmeno accorgersene, diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’iniziativa culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa. (...) Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire solo dimenticanza della propria storia né morbida assuefazione alla bellezza, che dandola per scontata la viva come esangue ornamento cercandovi consolazione. Vuol dire soprattutto la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre più necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia».
Diversamente dagli abitanti di Firenze, ma anche di gran parte delle città italiane, veneziani e romani sono stati sedotti dal fiume di denaro riversato sulle due città dalle numerose leggi speciali approvate dal Parlamento a loro favore. E così hanno perduto la propria identità. Leggi con l’effetto di un oppiaceo che, con rare eccezioni, hanno cancellato la capacità di una comunità di rendersi conto del disastro in cui veniva trascinata. Per far spazio alla monocultura di un turismo accattone, i veneziani hanno abbandonato la loro città. Erano circa 100 mila all’inizio degli anni Ottanta, ai tempi della prima legge speciale, sono 56 mila oggi. Hanno barattato la loro città per le comode rendite che si assicuravano consentendo che le loro case e i loro negozi venissero trasformati in bed and breakfast e rivendite di mascherine. «Nemmeno le attuali 2.400 strutture di accoglienza» scrive Settis riprendendo un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato sul «Corriere della Sera» il 25 gennaio 2014 «bastano ormai a saziarne gli appetiti: se non si riuscirà a bloccare il nuovo “piano casa” lanciato dalla Regione Veneto, le strutture ricettive potrebbero arrivare fino a 50.000 nel centro storico, coprendone la più gran parte».
Per capire il danno arrecato Settis invita a rileggere Harvey W. Corbett, l’architetto che negli anni fra le due guerre mondiali costruì alcuni dei primi grattacieli di New York. Egli pensava che le città del futuro, Manhattan in primis, avrebbero dovuto essere modellate su Venezia: «Ciascuno dei 2.028 isolati di Manhattan è concepito, alla lettera, come un’isola nella laguna, con una fitta maglia di ponti che le collegano l’una all’altra: un vero arcipelago metropolitano». Anche nel dibattito degli anni seguenti, ci ricorda ancora Settis, l’esempio di Venezia torna spesso: «Si parla di un “Ponte dei Sospiri” che attraversi la 49th Street o di colonnati che echeggino Palazzo Ducale, si ripete la metafora delle strade-canali, dove il flusso delle auto prende il posto delle acque lagunari, si prova a progettare il Rockefeller Center legando fra loro tre blocks trattati come “isole”, insomma “alla veneziana”».
Scrive Rem Koolhaas, il curatore della Biennale d’Architettura di quest’anno, in Delirious New York : «Lo stile di progettazione di Corbett è pianificare attraverso la metafora, facendo di Manhattan un sistema di solitudini d’ispirazione veneziana». Allude, ci ricorda Settis, a un celebre aforisma di Nietzsche: «Cento profonde solitudini formano insieme la città di Venezia – questa è la sua magia. Un’immagine per gli uomini del futuro». Venezia come immagine, come modello, come metafora. Le visioni del futuro fra ultimo Ottocento e primo Novecento intrecciano Venezia e i grattacieli, ma non necessariamente li contrappongono. «Nulla rende l’essenza e la qualità della vita urbana quanto l’incontro di cento solitudini, ma perché esso venisse inscenato a Manhattan la mediazione metaforica di Venezia fu un passaggio essenziale». Abbiamo speso 18,5 miliardi per ottenere il bel risultato di gettare tutto ciò al vento.
È inaudito il danno arrecato dalle leggi speciali. Ma rimane una speranza. Settis conclude che «Venezia potrà resistere nella sua ineguagliabile forma urbis se saprà costruire creativamente il proprio destino, calibrando ogni mutamento non sulle aspettative dei turisti né sulla speculazione immobiliare, ma sul futuro dei propri cittadini». I veneziani voteranno fra cinque mesi per eleggere un nuovo sindaco. Forse insieme ai cittadini di Roma. Entrambi, romani e veneziani, hanno l’occasione per risvegliarsi dal torpore in cui sono caduti e chiedersi finalmente che futuro vogliono per le loro città. È l’ultima occasione. Altrimenti si dovrà dar ragione a chi sostiene che il valore di queste città è troppo grande per affidarne l’amministrazione ai loro cittadini. Meglio affidarle alla società che ha in appalto i parchi dei divertimenti di Disneyland e che certamente li gestisce con più lungimiranza di quanto abbiano fatto gli amministratori cui negli anni recenti romani e veneziani hanno affidato le loro città.