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 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

Tutti condannati gli attivisti No Tav per l’assalto ai cantieri dell’Alta velocità, ma per i giudici non si è trattato di un atto di terrorismo. Inflitti 3 anni e 6 mesi a quattro giovani responsabili di danneggiamento e violenza. Il ministro Lupi contro la sentenza: «I magistrati vadano tra le imprese minacciate»

«Assolti perché il fatto non sussiste». Per un attimo la liturgia processuale coglie di sorpresa i quattro No Tav rinchiusi nella cella degli imputati, e soprattutto il pubblico, amici e familiari che si stagliano al di là di carabinieri e poliziotti schierati in forza, pronti ad intervenire in caso di rivolta. Poi, appena il presidente della corte d’Assise di Torino, Pietro Capello, completa la lettura della sentenza in meno di due minuti, nell’aula bunker del carcere della Vallette, teatro di storici processi contro criminalità organizzata e terrorismo, esplodono le urla di gioia, altro che rivolta. «Libertà, libertà». Questa volta, secondo la corte, non c’è traccia di terrorismo negli attacchi incendiari lanciati al cantiere dell’Alta Velocità, in Val di Susa, nel maggio del 2013.
La sentenza di ieri ha affondato le accuse della procura e fatto infuriare il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi: «Forse – ha detto – i giudici che hanno emesso la sentenza dovrebbero muoversi, andare in mezzo a quelle imprese che hanno subito minacce vere. Se non ha finalità terroristiche incappucciarsi e organizzare l’attacco allo Stato, qualcuno mi deve spiegare cosa sia».
Caduta l’imputazione più grave, restano comunque le condanne per danneggiamento e violenza a pubblico ufficiale: 3 anni e sei mesi di reclusione, più 5000 euro di multa inflitti ai quattro attivisti No Tav dell’area anarco-insurrezionalista, (tre torinesi e un milanese) Claudio Alberto, Niccolò Blasi, Mattia Zanotti, Chiara Zenobi. Tutti in carcere da un anno, per aver partecipato all’attentato compiuto bersagliando il cantiere con bottiglie molotov e razzi. Un attacco certamente coordinato con l’uso di cellulari, impiegati solo in quella notte, e diretta da più parti. Ma in quell’assalto, mirato a colpire macchinari e mezzi delle forze dell’ordine, non c’era l’intenzione di mettere a rischio l’incolumità delle persone. Lo hanno ammesso in aula gli imputati. E soprattutto è stato affermato da altri tre attivisti, arrestati a distanza di qualche mese, incastrati da una conversazione intercetta dalla Digos in un ristorante di Milano. Così è emerso nel corso del dibattimento, anche se nel tunnel esplorativo di Chiomonte, la sera del 13 maggio 2013, erano al lavoro più di 10 operai. Le molotov colpirono un compressore e il fumo raggiunse pericolosamente l’interno dello scavo. I lavoratori riuscirono a scappare protetti dall’intervento delle forze dell’ordine. La corte ha riconosciuto alla società Ltf il risarcimento dei danni, negandolo però alla presidenza del Consiglio dei ministri, che aveva rivendicato un danno all’immagine, e al sindacato di polizia Sap. Tra 90 giorni saranno rese note le motivazioni della sentenza.
Nel frattempo il legal team dei No Tav esulta. «Abbiamo sempre ritenuto l’accusa di terrorismo – dice l’avvocato Claudio Novaro – una sproporzione rispetto ai fatti contestati». Per ora i quattro restano in carcere. I legali dovranno valutare il da farsi: forse potrebbero ottenere gli arresti domiciliari.

Massimiliano Peggio

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Allora è davvero finita? «In linea di massima sì. Anche se ci sarà ancora da affrontare un processo in Appello». Ma per gli altri tre? «Per loro è ancora tutto incerto».
Ore tredici, piazzale davanti all’aula bunker delle Vallette. Il mondo No Tav s’interroga su cosa accadrà adesso. Che ne sarà di Lucio Alberti, Graziano Mazzarelli e Francesco Sala arrestati l’altra settimana con l’accusa di terrorismo e sempre per l’assalto al cantiere dell’Alta velocità, a Chiomonte, nel maggio del 2013? Per loro la Procura vuole il processo. «Con un’accusa meglio puntellata» rispetto a quella sostenuta nel dibattimento appena finito. Il che vuol dire motivazioni migliori e più dettagliate. Seguendo le indicazioni date dalla Cassazione sulla vicenda andata ieri a sentenza.
Ma gli elementi oggettivi attorno ai quali ruota tutta la vicenda resteranno gli stessi ascoltati in questo processo: le tracce lasciate dai telefoni cellulari usati durante l’azione, i filmati di quella notte, e le dichiarazioni spontanee degli imputati. E resta anche quell’intercettazione registrata nel ristorante di Milano, dove, in sintesi, gli indagati dicevano: «Noi non volevamo attaccare le persone». Una dichiarazione che ha cancellato i dubbi della Corte d’assise, consentendole di dare un colpo di spugna all’accusa di terrorismo.
«In queste condizioni è rischioso un processo fotocopia» sussurrano da giorni nei corridoi del Palagiustizia. Ma sono soltanto voci perché, in apparenza, la Procura va avanti in modo monolitico. Ha disposto l’arresto dei tre. Replicato le imputazioni, proseguendo il lavoro su una strada già tracciata. Monolitica. Almeno ufficialmente. Perché più d’uno è pronto a giurare che a Palazzo di giustizia è finita l’epoca dei processi ad alto impatto. E già citano ciò che il procuratore Armando Spataro aveva dichiarato un mese fa ad un giornale, in merito all’incriminazione di Erri De Luca per le frasi pronunciate sulla questione Tav: «Come magistrato io non mi interesso di quel che dice uno scrittore, semmai alle sentenze della Cassazione». Il che era suonato come una specie di sconfessione della linea dura adottata contro i No Tav. dall’ex procuratore Caselli E in particolare contro l’ala più oltranzista e movimentista – anche soltanto a parole – della galassia di realtà che dice no all’Alta velocità in val di Susa.
Pettegolezzi a parte, resta in sospeso una domanda: se nel processo fossero entrate le testimonianze e i documenti esclusi dalla Corte, sarebbe andata in modo diverso? Le accuse sarebbero state tutte confermate?
Per effetto dei molti dubbi e dei troppi pettegolezzi che aleggiano da mesi al «Bruno Caccia» qualcuno, in queste ore, punta il dito anche contro il rigoroso presidente della Corte d’assise Paolo Capello. «In questo processo ha detto troppi no» dicono. Lasciando intendere che, forse, senza di lui la sentenza sarebbe stata differente.
Lodovico Poletto