La Stampa, 18 dicembre 2014
La cerimonia degli insulti ai dissidenti del M5s. L’ultimo caso quello di Tommaso Currò. I maiali del giorno dopo - guarda un po’ - erano puri come Vestali solo fino al giorno prima. Poi, di colpo, si scopre che erano fannulloni, avidi, carrieristi
I maiali del giorno dopo – guarda un po’ – erano puri come Vestali solo fino al giorno prima. Poi, di colpo, si scopre che erano fannulloni, avidi, carrieristi, e cioè la carrellata classica di accuse che in tempi e in contesti un po’ più drammatici era rivolta ai trotzkisti. Dunque, nemici del popolo. Tommaso Currò, il ventitreesimo parlamentare a lasciare i Cinque stelle (su 163, oltre il 14 per cento in un anno e mezzo), ha «tradito il sogno di milioni di italiani». La sentenza da Politburo di periferia viene dall’onorevole grillino Angelo Tofalo che su Twitter ha proposto il sempre suggestivo parallelo: «Altro che Razzi». A proposito, parentesi: uno dei primi ex, Luis Alberto Orellana, fu all’epoca accostato a Domenico Scilipoti.
Lo scandalo rabbioso dei resistenti ha tutta l’aria di essere direttamente proporzionale alla vecchia illusione sulla superiorità morale del popolo minuto. Doveva arrivare in Parlamento e ripulirlo dal marciume con la forza dell’ingenua onestà. Invece non c’è gruppo politico che conti percentuali così alte di transumanza, e peraltro in palazzi nei quali i record vengono continuamente aggiornati. L’iniezione di rettitudine nella carne corrotta, insomma, non c’è stata. Perché non si conosce cittadino che se ne vada dal Movimento così, con una stretta mano, senza essere cancellato dalle foto ufficiali coi titoli di mascalzone e ladro e prezzolato. Currò è stato salutato dai colleghi al grido di «marchettaro» e «traditore» intanto che uno di loro, Carlo Sibilia, si rivolgeva a Matteo Renzi sfregando indice e pollice: «Lo hai pagato, eh?».
Sui primi (oltre a Orellana – «che schifo di uomo», commentò un Alessandro Di Battista tutto sommato lieve – c’erano Maria Mussini, Maurizio Romani, Monica Casaletto, Alessandra Bencini e Laura Bignami) si fece una diagnosi impietosa e allo stesso tempo incoraggiante: «Cancro da estirpare». Brutta malattia, ma ora il M5s sarebbe guarito. Molto meglio che i sei se ne andassero perché erano «zavorra», erano «parassiti», erano «disertori» e inoltre – chi l’avrebbe detto? – non avevano mantenuto la sacra promessa: «Si tengono i soldi». Anche questa è una costante: salutano o vengono cacciati, e un quarto d’ora dopo si viene a sapere della loro infamante rapacità. «Macchine mangia soldi», ha detto il primus inter pares Luigi Di Maio. Che, a proposito del transfuga Alessio Tacconi, chiese al mondo: «Ci lascia forse perché gli abbiamo chiesto conto di settemila euro?».
Affamati di quattrini e mangiapane a ufo, «hanno alti indici di assenza», ha detto ancora il sempre zelante Di Maio, e si scrisse dell’«attività nulla in aula e in commissione» della senatrice Vincenza Labriola. Davanti a simili precedenti, il deputato Manlio Di Stefano stilò su Facebook l’elenco dei cornuti con tanto di foto e di titolo: «Dissidenti sanguisughe». Il resto era conseguente, «assetati di soldi, potere e poltrone», «faranno i conti con la loro anima», e persino «Barabba», in un’interpretazione senz’altro innovativa degli insegnamenti evangelici. Seguirono i commenti del popolo della Rete, da «maiali» in giù, e che maiali vi basti.