La Stampa, 18 dicembre 2014
Tutti gli errori italiani sul caso dei due marò: dallo sbarco nel porto di Kochi al risarcimento per le famiglie dei morti, dall’illusione per le trattative con Modi al mancato rientro dei fucilieri
Se subito dopo l’incidente che ha coinvolto i due fucilieri italiani a bordo della petroliera in servizio anti-pirateria Enrica Lexie il 15 febbraio 2012, si fosse eseguito l’ordine venuto dai vertici della Marina, di non dirigersi verso il porto indiano di Kochi e di non far mettere piede a terra a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, oggi non staremmo qui a interrogarci sul loro destino, né su quello dei rapporti Italia-India. E del resto, perché mai il comandante della Lexie Umberto Vitelli, che non è un militare e che risponde a un armatore, non a un governo, avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di entrare in conflitto con il proprio datore di lavoro e rifiutarsi a una sua precisa indicazione, quella di assecondare le autorità indiane per non perdere buoni clienti? La mancata chiarezza del decreto legge del 12 luglio 2011 (e della successiva convenzione firmata da Difesa e Confitarma l’11 ottobre) sulle regole di ingaggio dei militari in servizio anti-pirateria su imbarcazioni civili è il primo di tutti gli errori che sono stati inanellati in questa brutta storia, che colpisce – oltre gli interessati – l’immagine del nostro Paese.
Le regole d’ingaggio
Il secondo errore è stato nel sottovalutare, complessivamente, la posizione e le ragioni degli indiani, che contavano comunque due pescatori morti, due famiglie a rischio miseria e un’opinione pubblica sì abituata alle vessazioni degli ultimi, ma pronta a esplodere se a colpirli sono degli stranieri. Durissima quindi, fu la reazione al pagamento che gli italiani decisero di stanziare, in forma di risarcimento, alle famiglie dei pescatori colpiti. Non sembrò affatto un gesto compassionevole, ma il tentativo sprezzante di chi crede di poter mettere tutto a posto con i soldi, nonché un’ ammissione di colpevolezza. Se anziché dedicarsi a questa goffa trattativa ci si fosse concentrati su come interpretare a proprio favore la Convenzione per la Repressione di Atti Illeciti contro la Sicurezza della Navigazione Marittima – che presenta vuoti legislativi e margini, seppur piccoli, di intervento – forse anche da parte indiana si sarebbe mostrata maggiore disponibilità.
L’equivoco sul premier
E invece, e siamo al terzo errore, si è scelto di proseguire sulla strada della diplomazia caratteriale, negando ai due marò il rientro a Delhi al termine della licenza per poter votare alle legislative del 2013. Decisione il cui aspetto più clamoroso è stata un’assoluta mancanza di riflessione sulle conseguenze. Tant’è che si è dovuto fare marcia indietro.
Nel frattempo veniva sollevata a più riprese la bandiera dell’internazionalizzazione del caso e dell’arbitrato internazionale, ma così come quest’ultimo non è stato mai avviato – ne scriveva ieri «La Stampa» – non risulta che gli eventuali interventi di altre diplomazie abbiano sortito alcun effetto. Si obietterà che avviare un arbitrato avrebbe chiuso le porte a qualsiasi negoziato-ombra.
Obiezione accolta, ma se il risultato è quello di veder negata la licenza natalizia – che poi significa un ulteriore inasprimento della vicenda in senso lato – allora è legittimo dubitare che nell’ombra si stia negoziando qualcosa di sensato. Sullo sfondo, il fraintendimento del personaggio Modi, che ha usato i marò come clava durante la campagna elettorale e che poi, a elezioni vinte, si sarebbe dovuto trasformare nel migliore degli interlocutori possibili. Al momento le cose non stanno così.