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 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

Il fenomeno Carpi, in testa al campionato di Serie B. Budget ridotto, bel calcio, incoscienza e voglia di ripartire dopo il terremoto di due anni fa: «Siamo gli anti-borghesi del calcio. La fame fa la differenza»

La statua di Dorando, capelli al vento e muscoli di bronzo, va di corsa. Dribbla le auto all’ingresso della città e restituisce un’icona fiera al maratoneta con i baffi, scolpito invece minuto e sofferente nella foto sul traguardo di Londra 1908. Dorando Pietri, l’uomo che vinse e perse quell’oro, qui era garzone di pasticceria. Ora rammenta ai carpigiani quanto sia lunga la strada per la vittoria. Quest’enclave di settantamila anime, schiacciata fra Modena, Reggio e Mantova, è finita nel pallone: il Carpi è in fuga in B, se domani vince a Lanciano può essere campione d’inverno. Centocinque anni di storia, solo due fra i cadetti, qualche grande big (Bagni, Cacciatori, Materazzi): era in D nel 2009 quando si fuse con la Dorando Pietri, la seconda squadra. Si intreccia di nuovo col mito anche la fondazione del club nel 1909: nacque in un caffè di Piazza dei Martiri, all’angolo in cui Dorando, tornato dall’America, comprò il suo storico albergo. Nella piazza, la terza d’Italia per grandezza, le impalcature al Duomo e al Torrione degli Spagnoli oggi sono due grandi cicatrici del terremoto di due anni fa.
Dalla maglieria, cuore dell’economia locale – il boom raccontato da Giorgio Bocca, poi la crisi negli anni Novanta – arrivano i soci di maggioranza (Stefano Bonacini e Roberto Marani, “Gaudì”) e minoranza (il presidente Claudio Caliumi, “Marilena”), e lo sponsor (la famiglia Tarabini, “Blumarine”). La rosa è costata 100mila euro in estate, il monte stipendi è di 2,5 milioni. Il segreto lo svela il direttore sportivo Cristiano Giuntoli, facendo tante volte “zero” con le dita. «Io prendo ragazzi gratis dai dilettanti, ho tre collaboratori e tanti amici che mi fanno segnalazioni, poi c’è il computer per lo scouting, ma l’ultima parola resta la mia. Li scelgo grossi e pesanti, oppure piccoli e agili: devono avere una qualità fisica che colpisca, in un’orchestra servono i tromboni e i violini. Ci vuole coraggio con i giovani, ma è un rischio calcolato. Abbiamo tagliato il budget del 40%, volevamo solo salvarci, siamo in cima: abbiamo azzeccato tante scommesse e scelto l’uomo giusto in panchina». L’uomo è Fabrizio Castori da Tolentino, 8 promozioni in carriera, 5 esoneri recenti. «Chi mi ha cacciato non ha avuto tanta fortuna dopo», sorride. Tre figli, due nipoti, una moglie conosciuta alle superiori, una vita sempre al lavoro: programmatore informatico («Nel ‘74 i pc neanche esistevano»), ragioniere in un calzaturificio, poi commerciante in proprio di scarpe e pelletteria, allenatore per caso. Conobbe per lavoro il presidente della Belfortese, fu la sua prima panchina. Schietto, poco diplomatico, cantante mancato: al karaoke sfoggia Napule è, è amico di Biagio Antonacci, adora Vasco, Ligabue e i Rolling Stones. «Il mio Carpi è molto rock, aggressivo e fisico. Non si monta la testa, ma neppure vuole perdere una sola gara. Amo lavorare con i giovani, la fame fa la differenza: il calcio italiano s’è imborghesito, ad alti livelli c’è poca voglia di lavorare. Il nostro inno dovrebbe essere Sogna ragazzo sogna di Vecchioni, che io adoro». Di una sola cosa Castori non ama parlare, anzi si rabbuia: della rissa di Lumezzane-Cesena, dieci anni fa, della lunga squalifica, dei processi sportivi e penali che gli hanno tolto soldi e pace. Durante lo stop, andò a fare il direttore tecnico al San Patrignano. «I miei sbagli li ho pagati in contanti», ripete.
D’inverno il Carpi si allena sul sintetico, in esilio a Nonantola o a Fiorano. A porte aperte. A fine gara, i giocatori mangiano pastasciutta e crostata e bevono Fanta, prima della doccia, «per sfruttare la finestra metabolica ancora aperta». E girano in bici. Ci si può imbattere nel difensore Romagnoli: «Cosa stiamo facendo? Non lo sappiamo. Pensiamo a giocare, il calcio è una cosa semplice». O nel centrocampista Concas: «Il segreto è che qui non ci sono primedonne strapagate». Il bomber è il nigeriano Jerry Mbakogu: 10 gol, zero euro. L’idolo, Kevin Lasagna, anzi, KL15, come Ronaldo.
Per vedere il balun, finora, i carpigiani andavano a Milano, Verona, Bologna. Ora, in tremila (mille abbonati) riempiono lo stadio dedicato al partigiano Sandro Cabassi (costruito nel ‘28 e allora intitolato a Mario Papotti, caduto nella guerra civile spagnola). Soltanto 4200 posti, mattoncini che stanno insieme per amore: troppo piccolo pure per la B, a giugno scade la deroga biennale. Al Tribune Bar, un manipolo di “facinorosi” pensionati gioca a cotecchio, il ciapanò locale, e sogna: «Tifo Carpi da una vita, questa squadra è affamata e non ha paura di niente, neppure delle rivali che si rinforzeranno a gennaio», spiega Gabriele Gelatti, artigiano sessantenne, un’istituzione. Il barista, Davide detto Jurgen, dal bancone vede una riga d’erba e la pubblicità delle panchine, una beffa: «Seguo il Carpi da trent’anni e ora che stiamo per andare in A da qui non riesco a vedere il pallone: mi accorgo dei gol dal boato e corro fuori», com’è successo una settimana fa, nel derby vinto sul Modena. «Lo stadio per la A? Avercelo, questo problema...».
Il tramonto illumina i buffi calzoncini rossi del maratoneta. L’iscrizione alla base recita: «La vittoria è di Dorando».