la Repubblica, 18 dicembre 2014
Franco Cordero immerso fra meditazioni metafisiche e una partita a poker. Un estratto dall’ultimo libro del giurista, Toson d’oro, tra personaggi da romanzo e labirinti del sapere
Fert in casa di Ipnos I campanelli comandavano d’uscire. Al posto del monumento in piazza c’è un lavatoio: le lavandaie cantano sotto lumi viola penduli; il sacrestano li spegne nel cono della pertica. Dormiva sott’acqua, tra grossi pesci acquattati sul fondo melmoso, poi cammina sotto alberi le cui foglie sembrano nuove: il viale disegna una curva; passano carrozze; i viandanti indossano abiti festivi, vanno al Camposanto. Che Ognissanti sia festa mobile? Stavolta cade d’aprile, combinata alla fiera: i cambiavalute contano monete; parrucchieri acconciano teste; tengono banco modiste, sarti, droghieri, arrotini, amanuensi, confettieri, fiorai, computisti, chiromanti, pittori, orologiai, profumieri. L’astrologo vende lunari: il bibliopola espone dissertazioni adoperabili da baccellieri e maestri d’arte; Fert vede quella che scriverà. In fondo al portico trafficano i due che nel sogno a Mongardo, narrato dal primo capitolo, vendevano polizze d’aldilà.
I morti ricevono visite: seduti sul monumento funebre, gl’importanti; o ritti nella fossa, mento tra le mani; o sporgono la testa dalla colombaia. Qualcuno percorre i viali conversando: li segnala l’abito, e quanta cortesia regna; nessuno alza la voce; sorridono, ascoltano, rispondono in alfabeto muto. Operano silenziosi funamboli, prestigiatori, mimi: dei saltimbanchi formano piramidi umane; i balestrieri non falliscono un colpo; l’ammaestratore d’uccelli guida i voli muovendo appena le dita. La fiera finisce nel sole basso. Risalgono tutti, meno i morti.
Iulius nell’ordalia al settimo poker L’analisi post mortem conferma che giocassi bene: erano miserabili le carte; quando il mazziere mi serve una scala sul piatto grosso, gioco solo io; i quattro colori restano tali, due volte. Luber ghignava. «Iulius sanguina anche stasera: le carte gli voltano la schiena; continuando così, sarà Natale povero». Costretto spesso alla finestra, decifravo Potsdamer Platz: le due sul salvagente hanno tacchi altissimi; il verde è colore tossico; sulla sinistra viene un autobus grigio; tre porte ad arco della Stazione rossa danno sulla scalinata; uomini neri portano cappelli a cono; uno allunga la gamba destra scendendo dal marciapiede; tre donne rosa aspettano clienti. Cloto e Lachesi non m’hanno visto. Luber s’è accorto che le guardo. La blu è Cloto, l’altra Lachesi.
«Se le mangia con gli occhi, nemmeno fossero Madonne. (…) Vuol appendere un biglietto con la richiesta della grazia sotto le due Fräulein? S’accomodi, poi porta l’ex voto. Sa, molte professioniste hanno buon cuore. (…) Siamo al ponte del Santo patrono: domenica battaglia; lunedì riposo, così Iulius cura le ferite; martedì e mercoledì picchiamo duro, botte da orbi. (…) Saranno tre partite monstre, me lo dicono le antenne: avendo fieno in cascina, uno comincia col piede giusto e fila sul velluto; i precedenti pesano, eh. Cosa ne pensa, Iulius? [..] Viene il sospetto che le signorine in ghingheri gli tengano una mano sulla testa: stasera rischiava mazzate da abbattere due o tre tori; invece esce quasi intero. Sapevo una frase latina: quel che non avviene oggi... m’aiuti lei, così istruito. (…) Bravo, parla meglio delle grammatiche stampate. Au revoir, allora. Domenica 5, ore 14, con l’augurio che il tavolo balli».
Lachesi e Cloto incrociano i passi senza guardarsi, ma pensano la stessa cosa. «Buona notte, signori, e Dio vi benedica. Poteva essere una sera monstre: giocando chiuso, Iulius l’ha infiacchita; perdonatelo, aveva poca scelta. Non è allegro succhiare chiodi. Speriamo che domenica s’alzi il vento. Mi ridica la frase latina». Epilogo Sopravvivono orti, terreno incolto, case a due piani in colori tenui, rosa, limone stinto, ruggine. Devo averlo scritto, gli eventi ricalcano un Testo immane: vi stiamo tutti dentro; l’autore se l’era composto nel sonno dal quale sventuratamente esce, poi vola al buio super aquas. La lingua d’Adamo non dissona dalla cornice narrativa. Ha l’aria d’un buon sabato: sia detto sotto voce; e interpolo l’avverbio apotropaico “ancora”, col quale i contadini scongiurano la malasorte. In Esiodo trentamila guardiani celesti tengono i conti umani. Venerdì sera 12 novembre 1751, aspettando Vultur, Fert immagina il mago creatore in una lunga veste rossa, sotto la rocca dal viso umano: “tienimi compagnia”; salgono al Prato Rotondo; e deprecava le favole teologali, interrompendosi perché scende dalla piazza il corteo dell’Avvoltoio. L’armatura pulsa, materia viva. Toson d’oro racconta d’una terra isterilita: gli erbivendoli smontano il banco e qualcuno rovista nei rifiuti; amputata della polpa guasta, è ancora roba commestibile. Ha occhi mobili, naso a punta, capelli lunghi: la cintura gli stringe alla vita un lungo cappotto blu; i pantaloni cadono corti, calze bianche, galoches nere. Pescate nel mucchio due arance, esclude l’appena ammuffita. Questa stazione dev’essere l’ultima della quête: vi passa caso mai fosse sfuggito qualcosa ai concorrenti d’occhio meno lesto; attento, riluttante alle mischie, abile, lavora d’astuzia illuministica; guarda, affonda la mano, estrae un sedano bianco e verde.
Il viottolo tra gli orti sale allo sperone dell’altipiano. L’area della cittadella è giardino pubblico. L’epigrafe in marmo verde segnala le sepolture: l’Ornitologo avrebbe centoventidue anni; poi Loup, Otepergo, Herus, Rufo, Chiot; Born riposa in collina. Erano inespugnabili i baluardi d’oriente. Risalendoli, sosta davanti alla via del Teatro.
L’aveva sognato settantadue anni fa, luogo d’una confusa accademia: poi d’essersi perso nella chiesa contigua, e d’avervi dormito; al mattino c’era sul letto il diploma dottorale. Sul bastione vede l’Ornitologo nella folla in abito festivo: voleva toccargli la spalla; impossibile, i presenti non hanno corpo. Guardano tutti giù, nella conca verde dove cavalli ammaestrati eseguono passi danzanti in riva all’Isso. D’un colpo il cielo s’oscura e piove. L’apparente significato era sinistro ma tre anni dopo, sabato mattina 30 settembre 1752, riconosce i posti venendo qui ad aspettare Eva: torna dalla prigionia, scambiata col Pitone; l’avevano catturato domenica 24. Kniebo propone una permuta. Il corteo viene dal Vescovado: dei cannocchiali scrutano le colline; voci festose e mani tese indicano quattro carrozze sulla riva destra. Basilio, mago tipografo, componeva l’opus quartum. Largo dei Tigli trasmuta: dei giardinieri rifanno le aiuole; il vecchio signore in abiti decorosamente logori, habitué delle panchine, s’allontana tenendo sotto braccio i giornali presi dai cassoni. Il pericolo viene dopo l’opus tertium, perdurando la stasi. La festa equestre guastata dal temporale prefigurava mirabilia: Kniebo restituisce Eva; l’avventura culmina in gloria. Iulius reincarna Fert col doppio degli anni ed è ancora storia aperta, almeno fino al solstizio d’inverno. Due operai lavorano nella fossa del futuro ascensore. C’è posta. Il catalogo nascondeva una cartolina.
Toulouse-Lautrec, La modista: Marita torna venerdì sera 3 marzo; «se crede, chiami questo numero». Qualunque cosa avvenga poi, sarà meno bella, quindi Toson d’oro finisce, ultimo sabato d’un febbraio bisestile.