la Repubblica, 18 dicembre 2014
Le lettere inedite in cui Oscar Wilde descrive l’Italia, da Roma a Palermo: «Sono comparso nella prima fila dei pellegrini e ho avuto la benedizione del Santo Padre»
Roma, 16 aprile 1900
Mio caro Robbie, semplicemente non riesco a scrivere. È terribile, non nei tuoi riguardi ma nei miei. È una sorta di paralisi – una cacoethes tacendi (desiderio insistente di silenzio, ndr) – la forma che la malattia ha preso in me. Bene, tutto è andato molto bene. Palermo, dove ci siamo fermati otto giorni, era splendida. La città posta nella miglior situazione del mondo, trascorre la sua vita nella Conca d’oro, la splendida valle che si stende tra due mari.
I limoneti e gli aranceti erano così assolutamente perfetti che io sono ridiventato un preraffaellita, e ho detestato i soliti impressionisti, i cui animi torbidi, la cui intelligenza offuscata avrebbe reso solo con melma e macchie quei «lumi dorati appesi in una verde notte» che mi riempivano di gioia. L’elaborato e squisito particolare dei veri Preraffaelliti è il compenso che ci offrono per l’assenza di movimento: la Letteratura e la Musica sono le sole arti che non siano immobili.
E poi da nessuna parte, neppure a Ravenna, ho visto mosaici simili. Nella Cappella Palatina, che dai pavimenti ai soffitti a volta è tutta d’oro, ci si sente come si fosse seduti nel cuore di un enorme nido, guardando gli angeli cantare; e guardare gli angeli, o anche persone che cantano, è molto più piacevole che ascoltarli. Per questa ragione i grandi artisti danno sempre ai loro angeli liuti senza corde, flauti senza aperture di sfogo, e zampogne attraverso le quali nessun fiato può vagare o zufolare.
Di Monreale, coi suoi chiostri e la cattedrale, hai sentito parlare. Ci siamo andati spesso in carrozza, e i cocchieri sono ragazzi deliziosi magnificamente scolpiti. In loro, non nei cavalli siciliani, si vede la razza. I preferiti erano Manuele, Francesco e Salvatore. Mi piacevano tutti, ma mi ricordo solo di Manuele.
Sono diventato molto amico anche di un giovane seminarista che abitava nella cattedrale di Palermo, lui e undici altri, in stanzette sotto il tetto, come uccelli.
Ogni giorno mi faceva visitare un po’ per volta tutta la cattedrale, e io letteralmente mi inginocchiavo davanti all’enorme sarcofago di porfido nel quale giace Federico II. È una sublime, grandiosa cosa nuda, di colore scuro, retta da leoni che hanno preso parte del furore dell’anima irrequieta del grande Imperatore. Dapprima il mio giovane amico, di nome Giuseppe Loverde, dava a me le informazioni, ma dal terzo giorno gli ho dato io delle informazioni, e ho riscritto la storia come al solito e gli ho spiegato tutto sul Sommo Sovrano e la sua Corte di Poeti e sul tremendo libro che non ha mai scritto.
Giuseppe aveva quindici anni ed era dolcissimo. La regione per cui era entrato nella chiesa era squisitamente medievale. Gli ho chiesto perché pensasse di diventare chierico, e come.
Mi rispose: «Mio padre è un cuoco, e poverissimo, e a casa siamo in molti, così mi è sembrata una buona cosa che in una casa piccola come la nostra ci fosse una bocca in meno da nutrire, perché, malgrado io sia magro, mangio molto: troppo, ahimè, temo».
Gli ho detto di rallegrarsi, perché Dio usa spesso la povertà come un mezzo per portare a Sé le persone, e così non fa con i ricchi, se non raramente. Così davo coraggio a Giuseppe, e gli ho regalato un libretto di devozioni, molto grazioso, con più illustrazioni che preghiere; così molto utile per Giuseppe, che aveva begli occhi. Gli diedi anche molte lire, e gli predissi un cappello cardinalizio, se fosse rimasto molto buono e non mi avesse mai dimenticato. Disse che non lo avrebbe mai fatto: e credo davvero che non gli succederà, perché ogni giorno lo baciavo dietro l’altare maggiore.
A Napoli ci siamo fermati tre giorni. Molti dei miei amici sono, come ben sai, in prigione ma ne ho incontrati alcuni di buona memoria e mi sono innamorato di un dio marino, che per qualche ragione è alla Regia Scuola di Marina invece di starsene con Tritone.
Siamo arrivati a Roma il Giovedì santo. H. M. è partito il sabato per Gland, e ieri, col terrore di Grissell e della Corte Papale, sono comparso nella prima fila dei pellegrini in Vaticano e ho avuto la benedizione del Santo Padre – una benedizione che loro mi avrebbero negato.
Era splendido mentre veniva portato davanti a me sulla sua sedia gestatoria, non era di carne e sangue, ma una anima bianca vestita di bianco, artista quanto santo – il solo esempio della Storia, se si deve credere ai giornali.
Non ho visto nulla di simile alla straordinaria grazia del suo gesto, mentre si alzava, di istante in istante, a benedire – presumibilmente i pellegrini, certamente me. Tree dovrebbe vederlo. È la sua sola chance.
Ne sono stato profondamente impressionato, e il mio bastone da passeggio dava segni di germogliare: e davvero avrebbe germogliato, solo alla porta della cappella mi sarebbe stato preso dal Fante di Spade. Questo strano divieto è, naturalmente in onore di Tannhäuser.
Come ho avuto il biglietto? Per miracolo, naturalmente. Pensavo di non aver speranze, e non feci alcun tentativo. Sabato pomeriggio alle cinque io e Harold siamo andati all’Albergo Europa per un tè. All’improvviso, mentre stavo mangiando un crostino imburrato, un uomo, o qualcuno che ne aveva le sembianze, vestito come un portiere d’albergo, entrò e mi chiese se avrei voluto vedere il Papa il giorno di Pasqua. Io chinai umilmente la testa e dissi «Non sum dignus» o qualcosa di simile. E lui tirò fuori un biglietto! Quando ti dico che il suo viso era di soprannaturale bruttezza, e che il prezzo del biglietto era di trenta pezzi d’argento, non è necessario che dica altro. Un’altra cosa altrettanto curiosa è che ogniqualvolta passo dall’albergo, il che faccio costantemente, vedo lo stesso uomo. Gli scienziati chiamano questo fenomeno ossessione del nervo visivo. Io e te lo conosciamo meglio.