La Stampa, 18 dicembre 2014
Così Raúl, il piccolo Castro, ha archiviato il castrismo a Cuba. Prima ha preso il potere con il sostegno di Fidel, poi ha rivoluzionato tutto
All’Avana, a due passi dal Malecòn, di fronte al palazzotto ufficiale dove gli americani vestiti da americani fanno finta di non essere americani, e comunque sotto le finestre gli passeggiano con aria distratta gli agenti castristi in abiti da agenti castristi che fanno finta di non essere agenti, di fronte a quel monumento edilizio d’un pleistocene politico che Gorbaciov s’era portato via con sé e con il crollo del Muro, lì di fronte il vecchio murale che si fa beffe del «imperialismo yanqui» racconta nei suoi disegni colorati un tempo inchiodato nel tempo, gli Anni 50 o giù di lì. Gli yankees entrano ed escono dal palazzotto, gli agenti sbirciano, osservano e tengono a mente, e tutto sembra che debba continuare così per sempre, perché Fidel Castro continua a dirlo tuttora, a conclusione d’ogni sua diluviale orazione, che «Socialismo o muerte!». Tanto che anche quel palazzotto degli americani che fanno finta di non essere americani è un’ambasciata americana che fa finta di non essere un’ambasciata americana.
Il golpe bianco
Il tempo, a Cuba, è un tempo ufficialmente immobile. Perché Cuba è il Paese dell’ipocrisia, dove il socialismo se ne sta doverosamente acquattato nei marmi bianchi del Palacio de la Revoluciòn a coccolare i suoi miti ed esporre la gigantografia colorata del «Che», che tutti la vedono e i turisti la fotografano da portare a casa; ma poi, fuori da lì, la storia è un’altra. A cambiarla ha provveduto «el hermanito», Raùl, il fratellino arrivato al potere senza un golpe e anzi con il consenso pieno di Fidel, che sembrava dovesse essere un consenso temporaneo e nei fatti si è invece trasformato in un autentico cambio di regime, una sorta di golpe bianco, senza sciabole né militari, ma anche senza alcuna precipitazione, perché Raul sotto la bandiera della rivoluzione istituzionalizzata ha scritto uno slogan cui resta fedele anche oggi: «Sin prisa pero sin pausa». Chi va piano va sano e lontano.
Il nuovo socialismo
Anche quanto sta accadendo ora – che sembra un’epoca che finisce, 50 anni buttati via – anche tutto questo cammina dentro la politica di quello slogan. Da quando Raul ha preso davvero in mano la storia dell’isola (e comunque lui militare ha avuto naturalmente con sé i militari), ha subito annunciato dalla tribuna del vecchio Congresso i nuovi «lineamentos» del socialismo cubano: apertura progressiva all’economia privata, sostegno alle cooperative di lavoratori, facilitazioni estreme agli investimenti stranieri, concessione in affitto delle terre statali. Lo chiamano «il modelo chino», che poi è libertà (relativa) nella economia e rigore (non tanto relativo) nella politica. I segnali che Raul si scambiava con Washington non erano poi del tutto criptici, anche perché Obama aveva detto esplicitamente di volersi impegnare a metter da parte l’embargo contro cui da 50 anni sbatte il muso il commercio ufficiale tra gli Usa e Cuba (da sempre frangiflutti per il regime, che vi riversa ogni colpa della propria inefficienza, e però anche questo un monumento all’ipocrisia per via delle triangolazioni che fanno bellamente superare gran parte dei divieti).
La bandiera della democrazia e della libertà offre un gran bello sventolio a guardarla, ma sotto ci passa anche la spinta del mondo americano degli affari che teme di non trovar più posto nell’appetitoso programma di ricostruzione di un Paese immobile nel tempo, e ci passa anche la piena consapevolezza di Raul che i suoi «lineamentos» non ce la faranno a consolidarsi senza un accesso al mercato aperto, dove trovare i beni per i nuovi «padroncini» che non dipendono più dallo Stato.
Le riforme
Un «lineamento» di Raul diceva infatti che, entro il 2015, quasi 2 milioni di dipendenti statali dovranno andarsene a casa ad arrangiarsi, diventare «cuentapropistas»; e la macchina è partita davvero, perché all’inizio di quest’anno erano già state registrate 596.500 nuove cooperative private, e alla fine di settembre c’erano in lista 476.000 lavoratori autonomi. Ma è una macchina che stenta assai, perché l’isola manca di tutto e non si può fare il barbiere se il sapone da barba manca. Le decisioni che sono state prese ieri porteranno anche il sapone da barba. E l’ambasciata che doveva fingere di non essere ambasciata sventolerà finalmente la bandiera dell’imperialismo yanquee. Sembra, insomma, una storia a lieto fine, e invece siamo solo all’inizio. La società della Revoluciòn ufficiale si agita di tensioni e problemi che un vecchio murale beffardo teme di non sapere più raccontare.