Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 18 Giovedì calendario

Dallo sbarco alla Baia dei Porci alla crisi dei missili sovietici, il confronto fra Usa e Cuba ha portato il mondo sul baratro. Una guerra fredda durata 54 anni, circa 10 in più di quella con l’Urss. Scoppiò il 3 gennaio ’61 quando, alcuni mesi dopo averle imposto un rigido embargo commerciale, il presidente americano Ike Eisenhower ruppe i rapporti diplomatici con l’Avana

La guerra fredda dell’America con Cuba è durata 54 anni, circa 10 in più di quella, assai più comprensibile, con l’Urss. Scoppiò il 3 gennaio ’61 quando, alcuni mesi dopo averle imposto un rigido embargo commerciale, il presidente americano Ike Eisenhower ruppe i rapporti diplomatici con l’Avana. Nel ’58 e ’59, l’America aveva indirettamente aiutato Fidel Castro a deporre il dittatore Fulgencio Batista rifiutando di armare quest’ultimo. Ma quello stesso anno, dopo aver incontrato a Washington il vicepresidente Richard Nixon ansioso di avviarlo «sulla retta strada» (il capitalismo), Castro le voltò le spalle.
Per oltre 60 anni, Cuba, la perla dei Caraibi, amatissima dal romanziere Ernest Hemigway e dominata da Wall Street e dalla mafia, era stata una sorta di colonia e casinò americani. Il líder máximo, che aveva studiato medicina all’Università di Harvard e s’era disamorato dell’America, volle cancellarne il passato. Castro abolì la proprietà privata, nazionalizzò tutto ciò che sapeva di «made in Usa» e reagì all’embargo di Washington chiedendo investimenti e commerci all’Urss. Alle elezioni presidenziali americane del novembre del ’60, il candidato democratico John Kennedy ne attribuì la colpa ad Eisenhower, un repubblicano: «Non abbiamo mai fatto nulla per la libertà e il benessere dei cubani».
Nemmeno Kennedy, tuttavia, poteva tollerare un nemico nel giardino di casa. Tre soli mesi dopo l’ingresso alla Casa Bianca, il presidente chiuse la porta a ogni negoziato e gettò Cuba nelle braccia dell’Urss con quello che, ammise più tardi, fu il più grave errore della sua presidenza: il fallito sbarco nella Baia dei Porci di 1.500 esuli cubani e di agenti della Cia nell’aprile ’61. In ritorsione, Castro, allora forte dell’appoggio popolare, proclamò Cuba uno Stato comunista e strinse un’alleanza militare con l’Urss. Da un rapporto della Commissione ai servizi segreti del Senato americano, Kennedy autorizzò «l’operazione Mangusta», una serie di inutili attentati contro Fidel.
In retrospettiva, sembra impossibile che la questione cubana, una crisi locale tra la superpotenza e un Paese terzo, abbia fatto sfiorare al mondo l’olocausto nucleare. Ma è ciò che avvenne nell’ottobre del ’62, quando l’America scoprì che la Russia stava installando missili atomici nell’isola. Per 13 giorni Washington e Mosca si prepararono alla guerra. La evitarono all’ultimo minuto, quando Kennedy offrì segretamente al Cremlino di smantellare i missili americani in Turchia in cambio del ritiro dei missili sovietici da Cuba.
La lezione di John Kennedy lasciò un segno sui successivi presidenti democratici americani e su Castro, che nel ’64 compì la prima apertura invitando senza successo Lyndon Johnson a negoziare perché, scrisse, «l’ostilità tra Cuba e gli Stati Uniti non è naturale e non è necessaria e può essere eliminata». Un temporaneo riavvicinamento ebbe luogo nel ’77, quando Jimmy Carter e il líder máximo aprirono ciascuno un ufficio di rappresentanza presso le ambasciate svizzere a Washington e all’Avana. Ma le amministrazioni repubblicane di Nixon, di Ronald Reagan e di George Bush sr, più legate alla Cia, al Pentagono e ai fuorusciti cubani, congelarono tutte le iniziative. È possibile che se avesse vinto le elezioni presidenziali americane del 2000, il candidato democratico Al Gore avrebbe normalizzato i rapporti con Cuba. Il suo predecessore Bill Clinton gli aveva additato il cammino facilitando i viaggi e gli scambi culturali tra i due Paesi e stringendo la mano a Castro al Millennium Summit dell’Onu. Le elezioni le vinse invece George Bush jr, che si adoprò per un «cambio di regime» all’Avana, ossia per la destituzione di Fidel. Ma qualcosa incominciava spontaneamente a cambiare a Cuba. Così, a venticinque anni dal crollo del Muro di Berlino, è caduto anche il Muro cubano.