Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2014
Attenti, l’Arabia Saudita è determinata a far saltare le produzioni di petrolio di molti Paesi, ingaggiando una guerra dei prezzi di non breve durata. Naturalmente, una guerra al ribasso. C’è l’intenzione di colpire pesantemente l’Iran in una delle fasi più delicate della trattativa internazionale sul nucleare di Teheran, così come l’intenzione di complicare la vita della Russia
Ormai stanca e sfiduciata dall’Opec, l’Arabia Saudita è determinata a far saltare le produzioni di greggio di molti Paesi, ingaggiando una guerra dei prezzi di non breve durata. Naturalmente, una guerra al ribasso. Secondo alcune informazioni riservate, per oltre un anno Riad ha valutato gli effetti sui suoi conti di prezzi del greggio a 60 e 45 dollari a barile. Nel primo caso (60 dollari), Riad potrebbe sostenere per almeno quattro anni le sue spese correnti (militari, sociali) senza intaccare le ricchissime riserve di valuta accumulate, 900 miliardi di dollari tra banca centrale e altre istituzioni pubbliche. Nel secondo caso (45 dollari), dovrebbe intaccare quelle riserve a un ritmo di 10 miliardi di dollari al mese: una sofferenza, certo, ma sopportabile per almeno un anno o due. Almeno nella testa dei sauditi.
In realtà, ancora alcune settimane fa, il Regno dei Saud non pensava di dover arrivare a tanto, convinto che già a 75 dollari a barile le produzioni di greggio degli Stati Uniti, del Canada, e di molti altri paesi che in questi anni hanno gonfiato l’offerta mondiale di petrolio sarebbero entrate in crisi. Almeno questa era la posizione prevalente nel ministero del petrolio, incarnata dal dominus dell’oro nero saudita – il ministro Ali-Naimi – l’unico uomo di cui il Re si fida ciecamente tra i tanti esperti di petrolio di cui dispone il paese.
Ma adesso anche questa convinzione sta vacillando.
Negli Stati Uniti il prezzo del greggio è già sceso sui 55 dollari a barile, ma settimanalmente le produzioni continuano a crescere. Molte società operanti nelle formazioni “shale” e “tight” hanno costi di produzione che possono reggere ben sotto i 50 dollari. Inoltre, molte di quelle società si sono coperte con strumenti di hedging per almeno il 50 percento della loro produzione del 2015 a un prezzo del greggio di circa 90 dollari. Molto più difficile la situazione di Canada e Venezuela, che però non hanno lo stesso peso degli Stati Uniti nella liquidità del mercato internazionale del greggio.
Così i sauditi si sono rapidamente lanciati nella scommessa della guerra al ribasso, sapendo che i sacrifici che dovranno sopportare per una simile guerra sono limitati rispetto a quelli che dovranno patire la maggior parte dei produttori. Non è immune da questa scelta l’intenzione di colpire pesantemente la posizione regionale dell’Iran in una delle fasi più delicate della trattativa internazionale sul nucleare di Teheran, così come l’intenzione di complicare la vita della Russia. Ma vedere in questi due obiettivi la base di un’intesa segreta con gli Stati Uniti è del tutto errato.
La scommessa estrema dei sauditi sui prezzi, infatti, sta impensierendo molto l’establishment statunitense, preoccupato che un vero e proprio collasso dei prezzi dell’oro nero – cioè un prezzo sotto i 50 dollari – finisca per mettere in crisi la rivoluzione petrolifera americana. Non solo. I prezzi in caduta minacciano ormai apertamente la prospettiva di rendere gli Stati Uniti un grande esportare di gas naturale. Già prima della caduta dei prezzi, molti progetti di esportazione di gas naturale liquefatto (Gnl) cominciavano a essere messi in pericolo da una struttura di costo al limite della redditività; adesso per la maggior parte di quei progetti i costi risultano incompatibili con prezzi del gas trascinati al ribasso – in Europa e Asia – dalla caduta del petrolio.
In altri termini, come in altri periodi della storia, la scommessa saudita non è stata concordata con gli americani, ma potrebbe andare pesantemente contro i loro interessi.
Nel 1986, all’epoca del più famoso collasso dei prezzi del petrolio della storia, l’allora vice presidente degli Stati Uniti – George Bush – si recò in Arabia Saudita per convincere il sovrano saudita a mettere fine alla caduta dei prezzi, poiché quella stava minacciando gran parte della produzione americana di petrolio, allora in declino. Difficile che un’azione del genere possa ripetersi oggi, poiché i sauditi chiederebbero come contropartita che anche gli Stati Uniti facessero la loro parte tagliando una parte della loro produzione. Cosa che Washington non può (il mercato è in mano alle società petrolifere, non al governo) né vuole fare.
Come per tutte le scommesse estreme, è difficile capire fin dove possa davvero spingersi quella di Riad, e quanto a lungo. Di certo, fin quando i sauditi non vedranno ridimensionarsi la produzione mondiale di greggio, è difficile che si fermino: in altri termini, è difficile che nei prossimi mesi il prezzo del petrolio possa rimbalzare in modo significativo, a meno di maggiori crisi politiche per un grande paese produttore. Rimangono aperti molti dubbi su che cosa faranno i sauditi se, trascorso un anno, la loro strategia non avesse portato risultato concreti, se non quello di aver fatto crollare ulteriormente i prezzi, senza aver frenato in modo significativo la produzione mondiale di petrolio.