Corriere della Sera, 17 dicembre 2014
La versione di Rummenigge: «Il segreto per essere vincenti nel mondo calcio? Il bel gioco prima di tutto. Le grandi squadre come il mio Bayern Monaco si costruiscono campione dopo campione. Anche Inter e Milan torneranno grandi»
Dal suo ufficio al secondo piano della sede di Saebener Strasse, Karl Heinz Rummenigge guida il consiglio di amministrazione del club più organizzato e più potente d’Europa. Il Bayern è una macchina (quasi) perfetta: ha i bilanci in ordine e in largo attivo, grandissimi giocatori, un super-allenatore, uno stadio, l’Allianz Arena, dove è impossibile trovare un posto vuoto da quando è stato inaugurato nel 2005. In più vince. Nel 2014, ha mancato la finale di Champions (doppia sconfitta con il Real di Ancelotti), ma ha vinto Bundesliga (con 7 giornate di anticipo, record) e Coppa di Germania; in campionato vola (12 vittorie, 3 pareggi, 9 punti di vantaggio sulla seconda).
Il modello Bayern è diventato un caso mondiale (virtuoso) anche per gli esperti di economia e finanza, ma Rummenigge, che viene dal campo, perché in Germania gli ex calciatori non sono destinati a fare soltanto gli allenatori o i direttori sportivi, ha un’altra idea: «Credo abbia ragione Moratti quando dice che la forza trainante di una società è la squadra. Sono convinto che l’elemento essenziale siano i risultati sportivi. La svolta nella nostra storia recente è stata la rinuncia a cedere Ribéry un anno dopo il suo arrivo. Nel 2008 abbiamo detto un no a un’offerta alla quale avrebbe risposto con un sì il 99% dei club europei. Se la squadra gira, se vince, se gioca bene, tutto diventa più semplice: i tifosi vengono allo stadio, i grandi giocatori sono contenti di trasferirsi qui e gli sponsor sostengono il club, lasciando spazio agli investimenti. Per questo è fondamentale il ruolo dell’allenatore. I giocatori di qualità sono indispensabili, ma è l’allenatore che riesce a trasformare la classe dei singoli nella forza di una squadra».
Così che è nata l’idea di prendere Pep Guardiola nel 2013: «Un ruolo importante l’ha avuto Giovanni Branchini. Guardiola era fermo, avendo scelto un anno sabbatico; c’era un pensiero su di lui; abbiamo saputo che aveva una forte simpatia per il Bayern e per la sua storia. Ci siamo mossi prima di Natale 2012; a gennaio 2013 ha firmato il contratto. La forza di Guardiola è quella di aver messo al centro di tutto il gioco, il gioco e ancora il gioco. Il 5 ottobre 2013, a Leverkusen, il Bayern aveva giocato una grandissima partita, ma alla fine avevamo raccolto soltanto un punto: 1-1. I giocatori erano arrabbiati, i dirigenti anche. Lui nello spogliatoio ha detto alla squadra: è stato il miglior match giocato fin qui; avanti così, arriveremo molto in alto. È stato il momento decisivo della stagione. Di Guardiola, fra le tante cose, mi impressiona l’intensità dei suoi allenamenti, soprattutto la rifinitura del venerdì, fatta su ritmi vertiginosi, mai visto niente di simile».
Trent’anni fa, Rummenigge aveva lasciato il Bayern per venire a giocare in Italia, nell’Inter. Era l’estate 1984: Platini e Boniek erano in Italia da due anni (come Passarella); Zico e Cerezo da uno; Falcao da quattro. Insieme a Rummenigge, erano arrivati anche Hateley e Wilkins (Milan); Elkjaer e Briegel (Verona) e nientemeno che Maradona a Napoli. «Si sentiva che il calcio in Italia era un fatto importantissimo e che la gente era orgogliosa delle proprie squadre. Io avevo richieste da Real e Barcellona e anche da altri club europei, ma ho scelto l’Italia e l’Inter e non mi sono mai pentito. Anzi». È difficile trovare qualcuno innamorato dell’Italia come lui: «Quelli all’Inter sono stati tre anni magnifici, per me e per tutta la mia famiglia, anche se purtroppo non si è vinto, perché ci è mancata anche un po’ di fortuna, compreso l’infortunio al tendine del 1° febbraio 1987, a Brescia, la mia ultima partita con l’Inter. Ero stato accolto benissimo; dopo un mese mi sentivo come a casa, perché avvertivo l’affetto della gente. Ho conosciuto le bellezze dell’Italia, compresa la cucina; San Siro era sempre pieno, il campionato italiano molto competitivo. Ho grande nostalgia per quel periodo e per quando giocavo, ma il passare del tempo non mi fa paura, anche se ora sono già nonno: ho una vita bellissima. Ho capito che i tifosi dell’Inter mi volevano veramente bene quando sono tornato per un’amichevole, Inter-Urss a Monza, febbraio 1989. Il progetto del presidente Pellegrini era quello di farmi tornare all’Inter insieme con Matthaeus e Brehme. Invece poi il club aveva puntato su Klinsmann».
Rummenigge non ha dimenticato niente della sua storia italiana e interista: «Domenica, mentre vedevo Juve-Samp, mi è tornato in mente il gol segnato alla Sampdoria il 23 dicembre 1984. Vierchowod era un difensore fortissimo, ma alla fine ero riuscito a fare gol. Il tempo è volato via». Milano adesso non è più al vertice: «Con un po’ di pazienza Inter e Milan torneranno in alto. Non ho dimenticato che in passato guardavo i due club con un po’ di invidia, per la loro storia, ma anche perché vincevano molto, compreso la Champions 2010, nella finale dell’Inter contro di noi. Ora si tratta di ricostruire, servono calma e idee chiare».
Oggi l’Italia del pallone non è più quella di trent’anni fa: «Sono cambiati i tempi; so che non tutti sono d’accordo con l’idea del fair play finanziario, penso al Psg o al City, e in tanti lo considerano un malus. Credo invece che rappresenti un bonus, perché basato sull’idea di spendere quello che si ricava, un criterio approvato all’unanimità dai club iscritti all’Eca, quando Platini ci aveva chiesto un sostegno al suo progetto. Dopo la sentenza Bosman, che ha 19 anni, le società hanno speso troppo per i cartellini dei giocatori, gli ingaggi, le commissioni degli agenti. L’Italia si sta muovendo per migliorare la struttura organizzativa del calcio e si vede: c’è la volontà di crescere e di costruire qualcosa di importante; c’è il tentativo di cambiare anche il tipo di gioco; c’è un’attenzione vera nei confronti dei giovani, che sono importantissimi. Il Bayern, ad esempio, è formato da alcuni grandi campioni acquistati anno dopo anno, perché un club vincente non lo si costruisce in un’estate sola e da un grande numero di giocatori del vivaio da Lahm a Schweinsteiger, da Alaba a Muller. Forse ci vorrebbe più aiuto da parte dei Comuni, per facilitare la costruzione degli stadi di proprietà. Non è bello vedere impianti vecchi e mezzi vuoti. A Torino, quando abbiamo giocato con la Juve nel 2013, ho capito che allo Stadium c’era l’atmosfera giusta».
Rummenigge non ha nessuna intenzione di dimenticare il passato, ma resta aperto al futuro: «Sono convinto che fare il calciatore oggi sia molto più difficile rispetto ai miei tempi, perché si tratta di sopportare più ruoli: quello dell’atleta, che è la base, ma anche quello dell’uomo di spettacolo. E poi i calciatori di oggi sono molto più preparati sul piano tattico e tecnicamente migliori; giocano su ritmi altissimi; il pressing è in ogni angolo di campo». Però alla fine c’è il Bayern che vince. Anche la Champions League 2015? «L’obiettivo concreto è vincere per la quarta volta consecutiva la Bundesliga; la Champions è un sogno, perché con l’eliminazione diretta può sempre succedere di tutto e serve attenzione. Io non sono un sognatore».