la Repubblica, 17 dicembre 2014
Il più grande attacco di pirateria informatica della storia è contro Hollywood. Milioni di file, email e progetti di film rubati. Obiettivo degli hacker: la Sony. Principale indiziato: il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Sembra la trama di un kolossal. Ma è un intrigo internazionale reale
Sono passate oltre tre settimane, ma il più devastante attacco hacker della storia contro una società privata non ha ancora un responsabile e nell’indifferenza generale minaccia di trascinare il mondo in una guerra elettronica capace di demolire equilibri politici e mercati. Lunedì 24 novembre il quartier generale della Sony Pictures Entertainment di Culver City, negli Usa, è stato violato da un cyberattacco senza precedenti. Il sistema informatico della divisione cinema del colosso giapponese, già aggredito nel 2011, è rimasto paralizzato per ore. I guerrieri elettronici sono riusciti a rubare milioni di file riservati, causando danni stimati in quasi 200 milioni di dollari. Il sistema Sony è finito off-line e i seimila dipendenti della società, accendendo i loro terminal, hanno trovato il messaggio “Hacked by Gop”, con la minaccia di diffusione di dati sensibili.
Alle minacce sono seguiti i fatti. I terroristi cybernetici, dopo aver compromesso le e-mail, hanno sottratto e rivelato online dati sui nuovi film della Sony, informazioni sui salari di dirigenti e star, documenti confidenziali e d’identità, oltre che gli indirizzi dei dipendenti. L’indiziato numero uno dell’attacco, su cui indaga l’Fbi, è clamoroso: Kim Jong-un, giovane dittatore della Corea del Nord, accusato di aggressioni simili anche ai danni degli uffici di Seul del governo sudcoreano. Nelle prime ore successive all’attacco, i sospetti sono stati rivolti verso Pyongyang per ragioni deduttive. Il 25 dicembre nelle sale americane uscirà il film The Interview, prodotto dai Sony Studios di Hollywood. Non si tratta di un qualsiasi blockbuster di fine anno (in Italia è atteso per il 22 gennaio). La commedia, frutto della collaborazione tra James Franco e Seth Rogen, racconta il tentativo maldestro di rapire e assassinare proprio Kim Jong-un. Nelle intenzioni dichiarate doveva essere «un’opera satirica», tesa a ridicolizzare sia il grottesco regime nordcoreano che il dilettantismo dei servizi segreti Usa. Il fantomatico conduttore televisivo Dave Skylark, deficiente a vanesio, entra casualmente nelle grazie dell’ipotetico dittatore di Pyongyang e assieme al suo produttore, essendo i soli due stranieri al mondo nelle condizioni di avvicinarsi all’ultimo dei Kim, decide di risolvere a modo suo uno dei più complessi nodi politici ereditati dalla Guerra Fredda. La non volontà dell’istigazione a delinquere è chiara, i protagonisti puntano a far ridere e la Cia ne esce peggio dell’uomo che minaccia di accelerare la corsa alle armi atomiche.
Già a luglio però, mentre The Interview finiva di essere girato, il kolossal Usa centrato sull’omicidio di Kim Jong-un e prodotto da un’etichetta giapponese aveva spinto Pyongyang a minacciare di «trascinare la regione nella guerra». L’agenzia del regime aveva avvertito che «fare un film che mina la leadership del nostro Paese è uno sfacciato atto di terrorismo e di guerra e non sarà tollerato». La minacce si erano spinte a preannunciare «contromisure spietate» in risposta all’uscita di The Interview nelle sale. Sono seguiti mesi di silenzio, fino all’attacco di fine novembre. Dopo il blitz degli hacker, Pyongyang ha negato ogni responsabilità, ma ha detto che si è trattato di «un’azione giusta».
Il colpo di scena, ai primi di dicembre. Hacker anonimi, sedicenti autori dell’attacco, sono entrati in contatto con i dirigenti Sony per chiedere un riscatto in cambio della restituzione della banca dati della società, di valore inestimabile. Il riscatto non era in denaro: i cyber terroristi volevano il ritiro del film anti-Kim dai cinema del tutto il mondo. I manager della Sony si sono rifiutati di cedere e nell’impotenza di servizi segreti e polizia elettronica internazionale le cose sono, se possibile, ancora peggiorate. Dai sistemi informatici aziendali sono stati sottratte copie di altri film ancora da distribuire, oltre che la sceneggiatura di Spectre, il nuovo 007 con Daniel Craig e Monica Bellucci. Ha quindi preso il via un impressionante stillicidio di documenti rubati, inviati sui computer dei più importanti media globali.
L’attacco ha compiuto così un salto di qualità, passando dal danno economico a quello politico e personale. Sui desk di giornali e tivù sono apparsi e-mail e documenti imbarazzanti sia per la copresidentessa Sony, Amy Pascal, che per il produttore Scott Rodin. La prima avrebbe espresso apprezzamenti razzisti contro Barack Obama e demolito Angelina Jolie, definita «mocciosa senza talento». Non solo pettegolezzi però. In uno scambio di mail l’ad chiedeva di tagliare le scene più scabrose del film su Kim Jong-un, in particolare quella in cui la faccia del dittatore viene fatta esplodere. Lo stesso, secondo i documenti hackerati, avrebbe fatto l’amministratore delegato di Sony, Kazuo Hirai, posto sotto pressione sia dalla Casa Bianca che da Pyonyang.
Nel fine settimana, mentre i legali della società ricordavano ai media e agli internauti che utilizzare documenti rubati configura il reato di riciclaggio, il commando misterioso è tornato incredibilmente in azione. Questa volta nel mirino è finito il Playstation Network, sempre di Sony, e per alcune ore i milioni di utenti non hanno potuto collegarsi. A rivendicare l’attacco è stato un gruppo di hacker chiamato Lizard Squad e basato in Russia. Un altro gruppo, autodefinito “Guardiani della pace” si è assunto la responsabilità dall’aggressione a causa di The Interview. In una mail inviata ai dipendenti, ha chiesto a dirigenti e artisti di dissociarsi dal film e dall’azienda, minacciando l’incolumità delle famiglie di chi non lo farà. «La Sony Pictures cadrà a pezzi – hanno scritto – vittima di un attentato senza precedenti». Ieri la reazione: i 6 mila dipendenti della società hanno promosso un’azione giudiziaria comune contro i propri vertici, chiedendo un risarcimento danni miliardario per «non aver saputo difendere la riservatezza collettiva». Già in agosto un oscuro episodio aveva coinvolto il presidente della multinazionale, John Smedley: un allarme-bomba aveva costretto all’atterraggio di fortuna il volo su cui era imbarcato. L’Fbi aveva scoperto che poche ore prima del decollo qualcuno aveva chiesto denaro per scongiurare azioni di pirateria informatica.
A scuotere in queste ore le cancellerie internazionali e il mondo del business non è solo la sensibilità rispetto al colossale furto di informazioni industriali. L’allarme suona a causa dell’impotenza di servizi segreti e polizia sia davanti ai cyber-attacchi, sia nell’individuare i responsabili. Le più importanti case cinematografiche di Hollywood sono state costrette ad arruolare società private di sicurezza informatica. La stessa Sony, pur svuotata dei suoi segreti, si è affidata alla Mandiant, specializzata in inchieste cybernetiche. L’Fbi ha allertato tutte le aziende americane sulla presenza di un maleware nordocoreano, diffuso dalla Cina, capace di distruggere anche i sistemi più protetti.
Intanto il mistero-Sony non è stato risolto, The Interview sta per arrivare nelle sale, la tensione tra Pyongyang e Washington continua a salire e Kim ha chiesto ieri all’Onu di portare gli Usa davanti ai giudici con l’accusa di «tortura sui detenuti». Gli occhi sono puntati sul giorno di Natale, quando gli americani vedranno il finto Kim aggredito sugli schermi. Pechino ha chiesto «chi si assumerà la responsabilità di un eventuale attentato, o di una disastrosa crisi politica». La rivoluzione digitale comincia a porre problemi che nemmeno un film avrebbe immaginato.