la Repubblica, 17 dicembre 2014
Il diffondersi e il radicarsi del populismo, in Europa come in America. Le nuove divisioni tra classi non separano tanto i ricchi dai poveri, quanto le élite istruite dai cittadini meno sofisticati. E ciò provoca frustrazione
Il ministro ombra britannico per l’Europa Pat McFadden, laburista, ha fatto notare ai membri del proprio partito che, anziché considerare l’immigrazione alla stregua di un malanno, farebbero bene a sforzarsi di trarre i massimi vantaggi dall’economia globale. «Potete alimentare il risentimento della gente oppure dare un’opportunità al prossimo», ha detto. «Io ritengo che le nostre scelte dovrebbero tendere a dare un’opportunità al prossimo». Parole di rara saggezza in un mondo vieppiù dominato da rimostranze contro gli immigrati, i banchieri, i musulmani, le “élite liberal”, gli “eurocrati”, i cosmopoliti e praticamente tutto ciò che ha un aspetto vagamente estraneo.
Negli Usa i repubblicani hanno minacciato lo “shutdown” del governo solo perché il presidente Obama ha offerto agli immigrati clandestini che da molti anni vivono e lavorano negli Usa la possibilità di prendere la cittadinanza. L’Ukip in Gran Bretagna vuole imporre un blocco quinquennale dell’immigrazione, vietando agli stranieri di stabilirsi nel Regno Unito. Il vice primo ministro russo Dmitry Rogozin ha diffuso un filmato in cui promette di «fare piazza pulita dei rifiuti a Mosca». Dove per “rifiuti” intende i lavoratori provenienti per lo più dalle ex Repubbliche sovietiche. Olandesi e danesi, un tempo notoriamente tolleranti, stanno dando in massa il proprio voto a partiti che si scagliano contro la piaga dell’immigrazione. Sempre pronto ad affermare il proprio diritto a insultare i musulmani, il Partito per la libertà olandese vuole vietare tutte le moschee. Persino a Singapore, un Paese dove quasi tutti discendono da immigrati, i piccoli e vessatissimi partiti dell’opposizione stanno cavalcando il diffuso scontento verso gli immigrati che «toglierebbero il lavoro».
Cosa potrebbero avere in comune gli entusiasti del Tea Party negli Usa, i simpatizzanti della sinistra di Singapore, gli sciovinisti russi e quei cittadini olandesi e danesi che provano un sentimento antislamico? La scarsità dei posti di lavoro nelle economie in difficoltà è indubbiamente motivo di seria preoccupazione. Ma la sussistenza della maggior parte di coloro che sostengono il Tea Party – che sono per lo più bianchi e di mezza età e risiedono in zone rurali – non è certo minacciata dai poveri emigrati messicani. L’Ukip vanta un grande seguito in alcune regioni dell’Inghilterra dove è raro imbattersi in qualche immigrato. E non molti di coloro che in Olanda votano il Partito per la libertà vivono all’ombra di una moschea.
È chiaro che il sentimento anti-immigrati trascende la vecchia linea di demarcazione tra destra e sinistra. Ciò che i sostenitori del Tea Party bianchi che vivono in zone rurali o quelli dell’Ukip hanno in comune con gli elettori della classe operaia che temono realmente che il proprio posto sia dato a degli stranieri malpagati è la paura di essere lasciati indietro in un mondo di grande mobilità, organizzazioni sovranazionali e networking globale. Quanto alla destra, i partiti conservatori si dividono tra quelli i cui interessi commerciali traggono vantaggio dall’immigrazione e gli altri che se ne sentono minacciati. Ecco perché i Tory britannici hanno tanta paura dell’Ukip. Nigel Farage, che dell’Ukip è il leader, si cura meno della crescita economica che della propria, radicale nozione di indipendenza nazionale.
All’estremo opposto dello spettro politico l’opinione si divide tra coloro che sono per lo più motivati dalla propria lotta contro il razzismo e l’intolleranza e coloro che vogliono tutelare il lavoro e la “solidarietà” per ciò che resta delle classi operaie autoctone. Ricondurre frettolosamente all’intolleranza le ansie suscitate dall’immigrazione sarebbe un errore. Le “identità” (in mancanza di un termine migliore) nazionali, religiose e culturali stanno subendo una trasformazione, determinata non tanto dall’immigrazione quanto dallo sviluppo capitalistico globale. Nella nuova economia globale, vincitori e perdenti si delineano chiaramente. Gli uomini e le donne istruiti e in grado di comunicare facilmente al di là dei confini nazionali traggono vantaggio dalla situazione attuale. Altri invece no. Le nuove divisioni tra classi non separano tanto i ricchi dai poveri, quanto le élite istruite e metropolitane dai provinciali meno sofisticati, meno flessibili e meno connessi. I loro leader condividono l’amarezza di coloro che si sentono alienati in un mondo che gli appare sconcertante e pieno di odio.
Gli agitatori populisti amano riattizzare questo risentimento popolare prendendosela con gli stranieri che lavorano per una miseria o non lavorano affatto. In realtà, però, ciò che soprattutto infastidisce le popolazioni autoctone è il relativo successo delle minoranze etniche e degli immigrati. E questo spiega il dissenso verso il presidente Obama. Gli americani sanno che il giorno in cui i bianchi saranno ridotti a una delle tante minoranze non è lontano, e il numero delle persone di colore che occupano posizioni di potere è in continuo aumento. Ecco perché i sostenitori del Tea Party e di altri gruppi analoghi vogliono riprendersi i propri, rispettivi Paesi.
La loro è, evidentemente, una pretesa impossibile da soddisfare. I cittadini dovranno abituarsi a vivere in società più che mai variegate. Nemmeno l’economia globale potrà fare marcia indietro, anche se dovrebbe essere regolamentata con maggior attenzione perché ci sono cose che vale ancora la pena tutelare, ed esistono buoni motivi per non esporre completamente la cultura, l’istruzione e alcuni stili di vita alla distruzione creativa delle forze darwiniane del mercato.
La soluzione proposta da PatMcFadden per risolvere le paure di un mondo globalizzato consiste nel mettere le persone in condizione di «cogliere i vantaggi che quel mondo offre. La nostra risposta deve consistere nel fare in modo che questo mondo connesso funzioni meglio per le persone». Ha ragione, naturalmente. Ma la sua esortazione si rivolge forse più alle classi istruite e già privilegiate che a coloro che si sentono spinti ai margini. Per la sinistra si tratta di un problema serio: sempre più spesso i partiti liberal di sinistra parlano a nome delle élite urbane, mentre i populisti provinciali che attingono alle torbide acque del risentimento popolare spingono i conservatori tradizionali sempre più a destra.
(traduzione di Marzia Porta)