il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2014
Napolitano e Galli della Loggia, i due smemorati di Collegno
Alla vigilia dell’auspicata abdicazione, Giorgio Napolitano ingaggia sul Corriere un’esilarante gara di smemoratezza con lo “storico” Ernesto Galli della Loggia. Questi critica il suo monito contro l’“antipolitica eversiva”, sostenendo che questa non nasce oggi, ma nel 1992: e non perché i politici rubavano (la parola tangenti non rientra nel suo vocabolario), ma perché i magistrati li perseguitavano e interferivano nella politica. La classe politica li lasciò fare e inoculò il “peccato originale” dell’antipolitica”, del “giustizialismo” e del “populismo” nella Seconda Repubblica fin dal concepimento. La prova? Due “fatti di cui ci siamo dimenticati con troppa facilità. Ma che invece pesano come macigni e ci ricordano da dove veniamo”.
1) Il 2 settembre 1992 il deputato socialista Sergio Moroni, appena inquisito, si tolse la vita dopo avere scritto una lettera al presidente della Camera Giorgio Napolitano “che oggi è difficile rileggere senza sentirne lo straordinario valore di premonizione... Moroni, dopo aver rivendicato di non ‘aver mai personalmente approfittato di una lira’, invocava ‘la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale’, dolendosi di essere ‘accomunato nella definizione di ladro’... Terminava denunciando ‘un clima da pogrom nei confronti della classe politica’... Ma le sue parole caddero nel vuoto. Benché dirette alla Presidenza della Camera, allora tenuta da Napolitano, non furono ritenute degne della benché minima discussione parlamentare”.
2) “Il 5 marzo 1993, in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione (con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese. Decreto legge che – caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica – il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire”. Fu così, secondo Galli della Loggia, che l’inerzia dei partiti aprì le dighe al fiume carsico che ha attraversato tutta la Seconda Repubblica, cavalcato ora dalla Lega, ora dal “popolo dei fax”, ora dai girotondi, ora da Grillo.
L’accusa di aver assecondato l’antipolitica fa saltare la mosca al naso a Re Giorgio, che prende carta e penna e risponde per le rime, rivendicando orgoglioso la difesa della casta partitocratica e tangentara: “Galli della Loggia sostiene che le parole di Moroni ‘caddero nel vuoto’. Ma non dice, forse perché non ricorda, che io resi pubblica quella lettera... la lessi in aula commentandola con brevi, difficili parole’. Non avrei potuto aprire una discussione in Assemblea, ho anche dopo continuato a chiedermi se avrei potuto dire o fare qualcosa di più, ma onestà vuole che non si ignori – con memoria incompleta o non obbiettiva – il modo in cui io personalmente non lasciai ‘cadere nel vuoto’ quella tragica lettera... Quel momento non si è mai cancellato dalla mia memoria... Nella mia ‘autobiografia politica’ del 2005 scrissi: ‘fu il momento umanamente e moralmente più angoscioso che vissi da presidente della Camera’”.
Ora, né Galli della Loggia né Napolitano hanno la più pallida idea di cosa stanno dicendo.
1) Lo “storico” confonde due fatti totalmente diversi. Il decreto Conso (governo Amato, 2 marzo 1993) depenalizzava il finanziamento illecito e fu respinto da Scalfaro non per un inesistente proclama del Pool (Borrelli si limitò a smentire Amato sul fatto che il decreto l’avesse chiesto lui), ma perché era incostituzionale (interferiva in una materia che il 18 aprile sarebbe stata oggetto di un referendum).
Invece il decreto Biondi (governo Berlusconi I, 13 luglio 1994) vietava la custodia in carcere per i reati di Tangentopoli (ma non per quelli minori), fu regolarmente firmato da Scalfaro, ma fu oggetto di un comunicato letto in tv da Di Pietro, attorniato dagli altri pm del Pool, perché creava una disparità di trattamento fra indagati di serie A e di serie B, infatti fu ritirato dallo stesso governo B. su richiesta di Bossi e Fini perché incostituzionale.
2) Galli della Loggia e Napolitano dimenticano la sostanza del caso Moroni. Tirato in ballo da Mario Chiesa come ex assessore alla Sanità e collettore delle tangenti sugli appalti ospedalieri per il Psi lombardo, e poi da altri arrestati per le mazzette sulle discariche, Moroni riceve tre avvisi di garanzia nell’estate ’92. Sono atti dovuti, imposti ai pm dalla legge di allora per poter chiedere alla Camera entro un mese l’autorizzazione a procedere. Nella lettera a Napolitano, Moroni confessa il suo ruolo in Tangentopoli con parole molto esplicite che il presidente finge di scordare: “Non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale... Ho commesso un errore. Accettando il sistema, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questa era prassi comune”. Poi sostiene di non aver intascato “personalmente una lira” e contesta la “decimazione” casuale dei politici: “Non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali”. La sentenza sullo scandalo discariche a carico dei coimputati (confermata in appello e in Cassazione) escluderà che Moroni fosse vittima di un errore giudiziario: è “accertata e pienamente provata la materialità dei fatti”, e cioè che aveva ricevuto “circa 200 milioni in totale nelle sue mani in una cartellina tipo quelle da ufficio, avvolta in un giornale”. Loris Zaffra, dirigente del Psi arrestato in quei mesi, spiegherà che Moroni si era sparato perché si sentiva isolato e scaricato dal suo partito: “Aveva ragione il povero Sergio quando parlò di ‘ruota della fortuna’: sei stato preso, peggio per te. Con Moroni ne avevamo discusso. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre alle tangenti, la slealtà dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peggio per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall’altra parte. Inaccettabile”. Eppure, dopo aver usato il suicidio di Moroni al suo funerale per attaccare i pm (“Hanno creato un clima infame”), anche Craxi lesse la sua lettera alla Camera il 29 aprile 1993 per strumentalizzarla a proprio vantaggio: cioè per dipingere i pm come assassini e convincere i deputati a respingere le richieste di autorizzazione a procedere nei suoi confronti (puntualmente accontentato). Ora Re Giorgio e Galli della Loggia ci riprovano. Ma questa è la vera storia che i due smemorati di Collegno tentano di ricordarsi a vicenda e invece hanno dimenticato entrambi. Se servono altre ripetizioni, siamo qui per loro.