Libero, 16 dicembre 2014
Il petrolio scende sotto ai 56 dollari al barile. Il Venezuela è a un passo dal default, il colosso brasiliano Petrobras perde circa il 20% e la Russia soffre più di tutti. Ma a Kuwait e Arabia Saudita non importa perdere quote di mercato «anche a costo di spingere le quotazioni sotto i 40 dollari»
Il calo del petrolio è una buona notizia. Forse troppo buona per i mercati finanziari che ieri hanno cominciato a tremare quando il greggio, nel pomeriggio, ha ripreso la via della discesa, toccando nuovi minimi sotto i 56 dollari: precipita Milano -2,81%, anche le Borse in Europa perdono oltre il 2 per cento. Non sorride nemmeno Wall Street. Anzi, il ribasso è cominciato lì, poco dopo le 14 italiane. In mattinata, infatti, il greggio aveva dato segnali di ripresa, sull’onda del black out della produzione libica, frenata dagli scontri tra fazioni. Poi, sui listini dell’Occidente sono piovute le dichiarazioni degli sceicchi del Golfo, che in questi giorni si divertono a deprimere i prezzi con dichiarazioni ad effetto. «Non ha senso chiederci di tagliar la produzione», ha dichiarato il ministro del petrolio degli Emirati Arabi. Gli ha fatto eco il collega del Kuwait: «Il nostro problema è non perdere quote di mercato, anche a costo di spingere le quotazioni sotto i 40 dollari». Insomma, il messaggio è uno solo: volete la guerra dei prezzi? E guerra sia. La situazione sembra assurda: perché le Borse occidentali scendono di fronte al maxisconto (1.700 miliardi di dollari) praticato dai produttori? Certo, per alcuni di loro la congiuntura è ormai drammatica. Il Venezuela è ad un passo (o forse meno) dal default. In Brasile, il colosso Petrobras, punta di diamante delle strategie petrolifere carioca, ha lasciato sul terreno circa il 20%. Più d tutti, naturalmente, soffre la Russia. Il rublo, ieri pomeriggio, è sceso per la prima volta sotto quota 60 nei confronti del dollaro. E la banca centrale ha fatto sapere che, se nel 2015 il prezzo del greggio resterà su questi livelli, il Pil arretrerà del 4-5 per cento. Ma forse il segnale più eloquente dello stato dell’economia di Mosca arrivato dal mercato dei bond: ieri sera le emissioni di Mosca in dollari rendevano in media il 7,22%, più di quelle del Rwanda, del Kenya e della Costa d’Avorio. L’aumento del rischio Russia, però, spiega solo in parte la reazione dei mercati azionari dell’Occidente. La vera paura di banche e banchieri è che il crollo dei prezzi del greggio metta in grave crisi le banche e le finanziarie che hanno puntato (e speculato) forti cifre sul settore energia. O che, in questi anni, hanno fatto a gara a finanziare i Paesi Emergenti, a caccia di rendimenti migliori. La sorte, però, ha voluto che la caduta del mercato del petrolio coincida con un passaggio delicato per la finanza internazionale: oggi, infatti, comincia la riunione della Fed, da cui dovrebbero arrivare segnali più precisi sull’aumento dei tassi Usa e, di riflesso, sul rafforzamento del dollaro. L’economia americana è senz’altro in grado di reggere il colpo, ma altrettanto non vale per gli Emergenti che in questi anni hanno raccolto prestiti nella valuta Usa che d’ora in poi rischiano di costare molto di più. Per l’Europa, infine, vale una preoccupazione in più: le elezioni presidenziali in Grecia che, se non si troverà un accordo entro il giorno 29, potrebbero provocare il voto anticipato per cui è favorita la lista anti-euro capitanata da Tsipras. La finanza, come si vede, ha molti problemi. Tutto vero, ma vale ancora l’obiezione iniziale. Non si capisce perché Piazza Affari non valorizzi gli aspetti positivi del calo del greggio: il risparmio per l’Italia, infatti, è pari ad un punto di pil, con grande sollievo per le imprese. Forse, in un futuro, lo farà. Ma per il momento prevale la sensazione che la crisi tenda ad aggravarsi, con gravi danni per la domanda: la Russia non compra più, la Cina rallenta. E sul mercato interno, finché domina l’austerità, non c’è da fare troppo affidamento.