La Stampa, 16 dicembre 2014
Il 2014, l’anno nero dei giornalisti. I reporter ammazzati fino all’8 dicembre di quest’anno sono 96; 137 li hanno sequestrati (e molti di loro destinati a morire), 853 li hanno sbattuti in galera. E 1846 sono stati aggrediti, minacciati
L’ultimo lo hanno ammazzato appena un paio di giorni fa, che la terra che gli hanno buttato sul lenzuolo bianco ancora non ha avuto tempo di rassodarsi. Si chiama Mahran al Deeri – onore a lui – e lavorava per la televisione Al Jazeera; lo hanno fatto fuori al confine insanguinato tra la Siria e la Giordania, con un missile che l’ha aperto dentro. E in quel lenzuolo candido, prima di avvolgerglielo, lo hanno dovuto rattoppare, come si è costretti quando la guerra fa, degli uomini, pezzi bruti di carne.
Mahran non c’è nemmeno, nel bilancio del 2014 che Reporters Sans Frontières pubblica oggi, dove vengono raccontati i numeri amari che in tutto il mondo condensano il lavoro dei giornalisti che vogliono fare «comunque» il loro mestiere. Lo hanno ammazzato con due della sua troupe, quando questo documento era già in stampa, e però ugualmente i numeri che vi leggiamo sono terribili: i reporter ammazzati fino all’8 dicembre sono 96; 137 li hanno sequestrati, presi in ostaggio e molti di loro destinati a morire, 853 li hanno sbattuti in galera (e nel conto ancora non c’erano la ventina di giornalisti di «Zaman» che l’aspirante despota Erdogan ha imprigionato l’altro ieri). E 1846 sono stati aggrediti, minacciati.
Il coltello di John il Boia
Il 19 d’agosto, in quel giorno che ci sta piantato in testa come un chiodo che ci rode di brutto il cervello, quando il coltello di John «l’inglese» si avvicinò alla gola di James Foley e cominciò a tagliare la carne viva di quello che ancora era un uomo, molti di noi scostammo via lo sguardo dallo schermo, non volevamo vedere, non volevamo sapere più nulla di quello scempio. E però diventavamo vittime anche noi, perché John vinceva se noi rinunciavamo a misurarci nella realtà che quel video ci rappresentava: che c’era un uomo che veniva sgozzato, che quell’uomo era un reporter che voleva soltanto raccontare la guerra, che la sua uccisione fatta con la crudeltà feroce che nessun animale mai si permetterebbe, voleva cancellare la folle ambizione d’immaginare che sia possibile un racconto libero, senza padreterni, senza schemi, senza ubbidienze dovute, senza visioni manichee di Bene e di Male. E questo non è sopportabile.
Dittatori veri e aspiranti
Sta tutto qui, il rapporto che i numeri ci sbattono addosso. Sta nel confronto tra un mestiere che – anche quando soltanto debole, o parolaio – vuole mostrarci che cosa ci accade d’attorno, e quanti, invece, di questo mestiere non sopportano la voglia di capire, il desiderio di testimonianza e di autonomia. Ci sono dittature che il confronto lo spengono subito, regimi che usano soldati e poliziotti per sotterrare ogni impulso a non subire bollettini o «veline», ma ci sono anche governi e poteri che – valga per tutti la Russia di Putin, o anche la Turchia – formalmente rispettano le modalità della democrazia, il voto, il pluralismo, ma poi esercitano un controllo che lascia poco spazio a esercizi di anticonformismo, o comunque invita a una comoda acquiescenza, a una pacifica autocensura.
Un prezzo tanto alto per il proprio lavoro non lo paga nessuna categoria professionale. Ma oggi più che mai l’informazione costruisce la realtà, il suo controllo controlla la conoscenza; e i «controllori» lo sanno tanto bene che le loro mani vanno ben oltre le figure tradizionali del giornalista, ormai nei numeri del «Rapporto 2014» stanno allo stesso modo dei reporter i blogger, i siti web, i citizen-journalists.
E poi ci siamo anche noi, l’Italia. Perché si muore di guerra, ma si muore anche di mafia e di criminalità. Lirio Abbate, giornalista de «L’Espresso» gira con la scorta, e con lui un’altra decina di reporter. E nell’anno che va, hanno avuto minacce 375 giornalisti italiani. A Bologna, l’altro ieri, qualcuno ha anche scritto su un muro: «I giornalisti parlano troppo, tappiamoli la bocca».