La Stampa, 16 dicembre 2014
Roma 1960, i giochi che diedero il via al miracolo italiano e ci fecero uscire dalla miseria. Ora gli esperti di economia sconsigliano vivamente la candidatura per il 2024: «L’Italia ne uscirebbe ancor più indebitata e ancor più corrotta», dicono. Ma per far crescere un Paese bisogna anche saper sognare
Ieri sui social era tutto un fiorire di battute velenose: a chi li facciamo gestire gli appalti, a Buzzi e Carminati?
Gli esperti di economia, poi, dicono che i costi sarebbero sicuramente superiori ai ricavi. Insomma l’Italia ne uscirebbe con l’immagine di un Paese irredimibile, ancor più indebitato e ancor più corrotto.
Però perlomeno ai più giovani vorremmo far sapere come andarono le cose in occasione dell’unico precedente storico: le Olimpiadi di Roma del 1960.
Quei Giochi hanno segnato la data di inizio del cosiddetto «miracolo italiano». Gli anni del boom cominciano proprio nel 1960 e le Olimpiadi di Roma sono il momento-simbolo di un’Italia che finalmente riparte. Usciti dalla guerra con il marchio dei vinti e dei voltagabbana, nel medagliere arriviamo dietro soltanto l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti: almeno nello sport, ci sentiamo la terza potenza mondiale. Tutto sembra segnare un cambio di passo. La morte di Fausto Coppi, il 2 gennaio 1960, è un lutto nazionale; otto mesi dopo, la vittoria di Livio Berruti nei duecento metri è l’immagine della riscossa. Coppi, con il suo volto sempre stravolto dalla fatica, le braccia sporche di fango e i copertoni al collo, era l’icona dei nostri stenti del dopoguerra; l’esile e occhialuto Berruti, ventunenne studente di chimica torinese, quella di un ceto medio che sta per comprare la lavatrice e la Cinquecento.
Tutto sembra rinascere: «La dolce vita» di Fellini vince a Cannes, il tratto appenninico dell’autostrada del Sole avvicina Nord e Sud, a Milano inaugurano il Pirellone che è il grattacielo più alto d’Europa.
Stavamo meglio di oggi? No. Assolutamente no. Gli amanti delle curve sui grafici diranno che quello era un Paese in crescita, e il nostro è in decrescita. Ma gli italiani del 1960 – 50 milioni e 45 mila – sono in gran parte un popolo di analfabeti: proprio in quell’anno facciamo conoscenza con un simpatico maestro elementare, Alberto Manzi, che in tv conduce «Non è mai troppo tardi». Un operaio guadagna 45 mila lire al mese e Togliatti dice alla Camera, in un appassionato discorso, che i nostri sono i salari più bassi dell’Occidente. Ogni anno duecentomila operai italiani sono costretti a emigrare all’estero. Quanto alle tensioni politiche, altro che le manganellate di oggi: in luglio la polizia carica gli operai e ci sono cinque morti a Reggio Emilia e cinque in altre città; alla fine il presidente del Consiglio Fernando Tambroni, democristiano che governa con l’appoggio esterno del Msi, si deve dimettere.
Insomma non stavamo meglio di oggi: ma eravamo un Paese che guardava avanti. Ha scritto Enzo Biagi: «Chissà se è un’impressione ma guardando l’immagine dell’inaugurazione, il 25 agosto 1960, dei Giochi della XVII Olimpiade di Roma o quella di Livio Berruti che trionfa nei duecento, sembra che fossimo tutti più felici. O più sereni, forse speranzosi».
Oggi siamo più istruiti, tutti motorizzati e iper-tecnologicizzati: ma non speriamo più in nulla. Chi ha figli, quando si incontra con gli amici non fa che ripetere che «questo è un Paese finito» e che «i nostri ragazzi hanno una sola possibilità: andarsene». Così anche la semplice ipotesi di avere di nuovo le Olimpiadi a Roma viene vista come una iattura perché non mettiamo neppure in conto l’eventualità che, magari, ci possa aiutare come ci aiutò cinquantaquattro anni fa. Tutto deve per forza essere corrotto, tutto deve per forza andare a finire male. Anche il precedente delle Olimpiadi invernali di Torino del 2006, che hanno contribuito moltissimo al rilancio della città, non viene tenuto in minimo conto.
Non occorre essere esperti di economia per capire che non c’è peggior cosa della rassegnazione. Non sono solo le curve sui grafici a dirci come può crescere un Paese: ci vuole anche, e forse ancora di più, quel saper sognare che, all’inizio degli Anni Sessanta, fu il vero propellente della nostra uscita dalla miseria.