Corriere della Sera, 16 dicembre 2014
I marmi di Elgin dal Partenone al British Museum. Una storia anche italiana
Appresa la notizia che il British Museum di Londra ha prestato all’Ermitage di San Pietroburgo un pezzo dei marmi del Partenone (la statua senza testa del dio Ilissor), il governo greco ha parlato di provocazione. Come mai quei reperti erano finiti a Londra? Lei come giudica il gesto della Gran Bretagna?
Maria Florenzi
Reggio Emilia
Cara Signora,
La storia dei marmi di Elgin (dal nome del Lord britannico che li comprò ad Atene e li vendette più tardi al British Museum) ha un preambolo italiano. Nel 1687, nel corso di una ennesima guerra con l’Impero Ottomano, il comandante della flotta veneziana, Francesco Morosini detto il Peloponnesiaco, conquistò la Morea, mise l’assedio ad Atene e neutralizzò, con un solo tiro di mortaio, una intera polveriera turca. Ma i barili di polvere, malauguratamente, erano custoditi nell’Acropoli e il tiro ebbe l’effetto di fare saltare il tetto dell’intero complesso architettonico. Né l’Impero Ottomano, né la Repubblica di Venezia, evidentemente, pensavano che quello straordinario tempio della civiltà greca meritasse un occhio di riguardo. Gli uomini non sono molto cambiati. La stessa sorte, poco meno di tre secoli dopo, è toccata all’Abbazia di Montecassino.
Di quel disastro, tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, approfittò un diplomatico britannico, ambasciatore del suo Paese a Costantinopoli. Lord Elgin perlustrò la Grecia alla ricerca di reperti archeologici, ma dedicò gran parte del suo tempo a ciò che ancora restava del Partenone e dell’Eretteo. Poco tempo dopo, nel 1801, ottenne dall’amministrazione imperiale un «firmano», redatto in italiano, che lo autorizzava ad asportare tutto ciò che poteva essere rimosso senza mettere in pericolo la stabilità del colle. Molti cominciarono a protestare, anche in Gran Bretagna, ma Elgin si affrettò a caricare la sua preda su una nave che arrivò in Inghilterra nel 1804. Non era un accanito collezionista, aveva già speso molti soldi e negoziò un contratto di vendita con il British Museum che ne ha fatto il cuore del suo patrimonio e il punto di forza della sua reputazione internazionale.
Il problema della restituzione nacque già all’epoca di Byron, ma divenne un caso internazionale quando il ministero della Cultura, dopo la vittoria socialista nelle elezioni greche del 1981, fu affidato a Melina Mercouri, attrice brillante e personalità vulcanica. Nel suo doppio mandato alla Cultura (1981-1989 e 1993- 994), Mercouri fece del suo meglio per riconquistare i marmi perduti. Ma il governo di Londra e il British Museum si difesero con due argomenti non privi di un certo valore. Sostennero che i marmi, se fossero rimasti ad Atene, avrebbero fatto probabilmente una fine peggiore e, in secondo luogo, che il museo aveva ricreato a Londra, nella sala dell’esposizione, un insieme archeologicamente coerente, meritevole di essere conservato e studiato come tale.
Vi è quindi un curioso paradosso. Gli argomenti con cui la Grecia e il British Museum difendono le loro tesi sono alquanto simili. La prima chiede la restituzione per ricostruire, nei limiti del possibile, l’unità dell’Acropoli; il secondo difende i marmi di Elgin perché gli appartengono da più di due secoli e formano, tutti insieme, un «unicum» di cui il museo non può essere privato. Capisco entrambe le posizioni. Capisco meno perché l’«unicum» possa essere spezzato, probabilmente per pagare un debito contratto dal British Museum con l’Ermitage per prestiti ricevuto in passato. Credo che con questa mossa sbagliata il museo abbia dato alla causa dei greci una carta in più.