Corriere della Sera, 16 dicembre 2014
Il Pd e la fine del ceto medio. L’alternativa all’austerità sta in una diversa concezione della crescita che fa della produzione di valore comune la sua precondizione
Uno degli effetti che più preoccupano della lunga crisi europea è la progressiva erosione del ceto medio, cioè di quella parte di società che, attraverso il lavoro dipendente e autonomo, ha avuto stabilmente accesso, nei decenni scorsi, a condizioni di benessere materiale e sicurezza esistenziale.
Anche se con intensità diversa, un tale fenomeno si registra un po in tutti i Paesi avanzati: all’aumento della disuguaglianza – fenomeno che inizia già negli Anni 90 – si sommano ormai diversi anni di stagnazione economica. Per l’Italia, basta un dato: oltre ai 10 milioni di persone in povertà relativa oggi si contano oltre sei milioni di poveri assoluti (quasi il 25% della popolazione totale).
Gli effetti sui sistemi democratici sono ben visibili: forte disaffezione politica – con l’aumento del non voto; crescita di partiti che contestano l’intero impianto istituzionale europeo (come nel caso del Front National in Francia e del M5S in Italia); riduzione dello spazio politico per l’alternanza destra-sinistra. Il rischio è l’ulteriore restringimento di questo centro politico. Se ciò accadesse, la democrazia entrerebbe in una fase convulsa e dagli esiti incerti. Si tratta allora di lavorare per invertire il trend, tornando a offrire possibilità di vita e di lavoro a una platea sufficientemente ampia di cittadini.
Se vogliamo riconoscerle nobiltà intellettuale, la discussione di questi mesi all’interno del Pd ruota tutta attorno a questo nodo. Nella diatriba tra la vecchia sinistra e il nuovo partito di Renzi si cela la ricerca di un equilibrio nuovo tra le esigenze della concorrenza e quelle della integrazione sociale. La discussione, tuttavia, appare molto confusa. Da un lato Renzi ha perfettamente ragione quando dice che, in un Paese per molti versi arretrato e diviso tra garantiti e non, ci vuole un mercato del lavoro più moderno (cioè più efficiente). Ma – e qui hanno ragione i suo oppositori – un tale obiettivo non può essere costruito contro il lavoro. Soprattutto oggi, dopo che la progressiva perdita della quota di valore aggiunto distribuita al lavoro (calata negli anni di oltre dieci punti) ha finito per impoverire l’intero Paese.
Che le politiche del passato non funzionino più lo si vede anche in Germania e negli Usa, dove il problema di cui si discute oggi è che la quota di risorse prodotte dall’economia e distribuite nella società rimane troppo bassa. Non solo perché si registrano livelli di concentrazione della ricchezza che non si vedevano dagli Anni 20, ma anche perché la quota di profitti effettivamente reinvestita – a favore della speculazione finanziaria – ha raggiunto ormai percentuali inaccettabili. Per uscire dalla crisi, ciò di cui si è alla ricerca è allora una visione politica nuova, che sia capace di delineare uno scambio più avanzato tra capitale e lavoro. Scambio che nel dopoguerra si era articolato attorno alla logica fordista-welfarista (più salari, più consumi, più protezione sociale). E che nei decenni liberisti ha ruotato attorno al rapporto consumo-indebitamento (pubblico o privato).
Che l’Italia debba modernizzarsi è fuori discussione. Ma si tratta di capire come. E soprattutto in rapporto alle sfide di questo tempo. La sfida della crisi, infatti, è quella di raggiungere una maggiore efficienza sistemica non con meno ma più integrazione sociale. Ciò richiede una politica in grado di spingere interessi divergenti a convenire attorno ad alleanze strategiche in vista del raggiungimento di obiettivi e priorità comuni, allo scopo di ricreare le condizioni per riavviare il processo virtuoso dell’investimento pubblico e privato. In condizioni di ragionevole integrazione sociale.
Sviluppare una tale visione è anche la risposta da dare all’Europa: l’alternativa all’austerità sta infatti in una diversa concezione della crescita che fa della produzione di valore comune – di natura non solo economica ma anche sociale, ambientale, istituzionale – la sua precondizione.
Per un partito come il Pd, al 40% dei consensi, senza una vera alternativa, con un personale giovane, l’ambizione non può che essere quella di essere all’altezza della sfida. Ambizione che certo richiede una discussione. Ma che poi ha bisogno di quella visione e quella decisione che ancora molti faticano a vedere.