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 2014  dicembre 16 Martedì calendario

Ian Bremmer parla del Giappone, della tiepida vittoria di Abe, della sua economia, dei suoi rapporti con la Cina, del nazionalismo e della tentazione militarista di Tokyo. Insomma racconta un Paese «attrezzato per navigare nelle tempeste»

Nella scommessa personale del premier giapponese Shinzo Abe, che con il voto anticipato di domenica ha blindato la maggioranza parlamentare dei due terzi e legittimato il rilancio di una politica fiscale e monetaria espansiva guardata con sospetto da ampi settori della società, si intrecciano ambizioni e contraddizioni di un Paese. Memorie storiche, specificità culturali, disegni strategici della terza potenza economica mondiale. La vittoria del Partito liberaldemocratico non è priva di chiaroscuri, dice al Corriere il politologo americano Ian Bremmer, presidente della società di ricerca e valutazione dei rischi Eurasia Group. «In uno scenario di bassa affluenza alle urne avrebbe dovuto sfondare, invece si è limitato a tenere la posizione».
Ma ha ottenuto il via libera a proseguire sulla strada dell’Abenomics, il sistema di misure macroeconomiche elaborato per rinvigorire la crescita fondato su tre pilastri, le «frecce». Quali saranno ora le priorità?
«Un ulteriore aumento della liquidità per assicurarsi che la Banca centrale rispetti l’obiettivo dell’inflazione al 2 per cento, più stimoli all’economia, riduzione delle imposte sui redditi delle società. Resta fondamentale il prossimo innalzamento della tassa sui consumi, rinviato di un anno e mezzo. Sulla “terza freccia”, il capitolo delle riforme strutturali, c’è stato soprattutto un problema di comunicazione: elettori e investitori hanno creduto che il processo sarebbe stato rapido, mentre quello di Abe è un approccio necessariamente ampio e graduale».
La preoccupa la tentazione militarista di Tokyo?
«Improbabile che a breve il premier spinga per modificare l’Articolo 9 della Costituzione, la rinuncia al diritto alla guerra. Abe è deciso a rilanciare il tema dell’autodifesa nazionale ma deve poter contare sui più cauti alleati di Komeito (partito conservatore d’ispirazione buddhista, ndr ), non esaspererà il dossier sicurezza».
Cosa c’è dietro il risorgente nazionalismo nipponico, nostalgie imperiali, un senso di rivalsa storica, una risposta alla globalizzazione, la reazione all’atteggiamento sempre più assertivo della Cina?
«Il primo ministro non si fida di Pechino, un sentimento radicato nel suo stesso ambiente familiare, questo elemento non va sottovalutato. E c’è una lunga serie di episodi di ostilità: in un sondaggio condotto dal Pew Research Center nella primavera 2014, solo il 7 per cento dei giapponesi esprimeva un parere positivo sulla Cina, viceversa i cinesi ben disposti verso il Giappone erano l’8 per cento. L’istituzione di una Zona cinese di identificazione per la difesa aerea nel novembre 2013 e la successiva visita di Abe al santuario di Yasukuni (nel cui “libro delle anime” compaiono anche i nomi di criminali di guerra, ndr ) hanno alzato il livello dello scontro. Lo stesso Abe ha paragonato i rapporti sino-giapponesi a quelli tra Regno Unito e Germania alla vigilia della Prima guerra mondiale».
C’è il rischio di un’ulteriore escalation?
«Il Giappone ha 23 mila compagnie che operano in Cina, con dieci milioni di dipendenti cinesi a libro paga. Nel discorso pronunciato all’Onu lo scorso settembre, Abe ha scelto un tono conciliante, denunciando la cultura della guerra e dicendosi pronto a migliorare i rapporti con Cina e Corea del Sud. L’incontro con il presidente cinese Xi Jinping al summit Apec di novembre non è stato amichevole, ma sufficiente a normalizzare le relazioni economiche. Entrambi i leader hanno bisogno di tenere le tensioni sotto controllo per concentrarsi sulle riforme interne».
Cosa rappresenta per la società giapponese il forte legame con la tradizione?
«Al centro di questa tradizione ci sono stabilità e capacità di recupero, preziose nell’ambiente macroeconomico di oggi. In un mondo che vede crescere insicurezza e precarietà, il Giappone è attrezzato per navigare nelle tempeste. Lo dimostrò dopo il terremoto e lo tsunami del marzo 2011, oltre 13 mila vittime, centinaia di migliaia di sfollati. La società, il governo e le istituzioni serrarono i ranghi; pensiamo per contrasto all’uragano Katrina del 2005, vissuto negli Stati Uniti come una vergogna nazionale. I giapponesi puntano al cuore delle cose e procedono per consenso, un lavoro che richiede tempo».