La Stampa, 16 dicembre 2014
Prodi, Bersani e Padoan. I tre nomi del Pd per il Colle
Si tratti o no dell’incontro della riconciliazione, come molti lo hanno interpretato, in vista di una nuova candidatura al Quirinale dopo la terribile esperienza dei 101 franchi tiratori della volta scorsa, l’arrivo di Prodi a Palazzo Chigi e le due ore trascorse con Renzi, dopo il lungo silenzio che li aveva allontanati, sono le prime conseguenze della conclusione dell’assemblea del Pd.
Una riunione nata sotto l’incubo di una scissione, e finita con la ricostruzione di una difficile unità interna, presupposto indispensabile della trattativa, ormai aperta, sul nome del successore di Napolitano.
Prodi e la tormentata stagione dell’Ulivo sono stati evocati da Renzi come esempio del vizio antico del centrosinistra di farsi del male. Ma i prodiani che avevano ritenuta ostile quest’affermazione, hanno dovuto riconoscere la novità dell’atteggiamento del premier, il prender atto di non poter fare a meno del due volte ex-presidente del Consiglio per rimettere insieme il Pd.
Di qui a dire che Prodi sia effettivamente in corsa, ovviamente ce ne corre.
Il suo curriculum, oltre ad essere prestigioso, contiene sicuramente tutti gli elementi che si richiedono in questo momento per la candidatura a Capo dello Stato: standing internazionale, preparazione economica, esperienza europea (è stato presidente della Commissione Ue). Ma è inutile nascondersi che, proprio perché è stato l’unico a battere due volte Berlusconi nel confronto diretto per Palazzo Chigi, il Prof. è destinato a sollevare reazioni assai dure da parte dell’ex-Cavaliere e di un centrodestra che sentono franare, proprio sul terreno del Quirinale, quell’intesa preferenziale che sembrava siglata una volta e per tutte con il patto del Nazareno.
Ora invece il gioco s’è riaperto: e la seconda conseguenza dell’unità ritrovata in casa Pd è che appunto il partito tratterà con tutti, e con nessuno in via privilegiata, con una rosa di nomi da cui alla fine dovrà essere estratto il nome del candidato più gradito ai Grandi Elettori. Prodi è dunque – meglio sarebbe dire è tornato ad essere – uno dei candidati, ma non sarà certo l’unico. Se Grillo e il Movimento 5 stelle avessero voglia di far politica, basterebbe che lo indicassero come il loro preferito (tra l’altro era uno di quelli usciti dalle «Quirinarie» tenute sulla rete), per farlo eleggere. Ma con la confusione che regna nel M5s non è facile che questo avvenga.
Ecco perché nel Pd, accanto al suo nome, ne circolano altri due. Parliamo, ovviamente, di candidati sorretti da una logica, dato che l’elenco degli aspiranti è lungo, e Renzi stesso ha spiegato di averne una lista di ben diciannove. Il primo dei due è Bersani, sì, proprio l’ex-segretario sconfitto dalla «non-vittoria» alle elezioni del 2013 e triturato dal fallimento del suo tentativo di formare un governo e dalle manovre dei franchi tiratori nella precedente tornata per il Quirinale. Tra il Bersani di allora – che per usare le sue stesse parole non era riuscito a «smacchiare il giaguaro», e aveva dovuto soccombere all’inarrestabile avanzata dell’ex-sindaco di Firenze – e quello di oggi, c’è una fondamentale differenza: non è più l’avversario diretto di Renzi, e negli ultimi tempi anzi s’è adoperato con tutte le sue forze per aiutarlo a guidare il Paese e il partito, a dispetto di tutto l’ostruzionismo interno che il governo ha dovuto scontare sulle riforme. Inoltre, la malattia che a inizio d’anno gli fece temere un’uscita di scena e il successivo, dignitoso rientro, nel ruolo un po’ da padre della patria, hanno molto addolcito le asperità di rapporti legate al periodo in cui era in prima linea. Seppure, certo, non fino al punto da poter aggirare la pregiudiziale della lunga militanza anti berlusconiana, che anche in questo caso farebbe sollevare gli scudi al centrodestra.
Per questa strada si arriva al terzo nome, il più coperto, e insieme quello su cui si sta ragionando in queste ore: Pier Carlo Padoan. Il ministro dell’Economia ha parecchie frecce al suo arco da scoccare: è un tecnico, in un momento in cui, a causa degli scandali, non è facile trovare un politico in grado di mettere d’accordo il largo fronte di elettori necessari per eleggere il nuovo Capo dello Stato; ha cominciato la sua vita pubblica a Palazzo Chigi con D’Alema sedici anni fa, mantenendo con lui una collaborazione nella fondazione «Italiani europei», ma ha saputo costruire un’intesa anche con Renzi. Senza Padoan, che non ha esitato a mettersi contro la nomenklatura del suo ministero, parte della quale è giunta a minacciare le dimissioni, gli ottanta euro in busta paga non sarebbero mai arrivati. E senza la sua paziente tessitura a Bruxelles e a Berlino, il premier non si sarebbe potuto consentire gli strattoni con cui ha riequilibrato il rapporto con Merkel e Juncker. Infine, negli anni in cui non affiancava D’Alema o Renzi, Padoan se n’era andato a Washington a lavorare al Fondo Monetario Internazionale. E si sa che il quarto di nobiltà atlantica è una dote utile, a volte indispensabile, per spiccare il balzo verso la sommità del Colle.