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 2014  dicembre 16 Martedì calendario

Khaled Sharrouf, uomo del Califfo diventato famoso per le foto che lo mostrano con delle teste mozzate. Al suo fianco, il figlio di soli sette anni che ne tiene in mano una. Sono circa 200 i mujaheddin partiti dall’Australia per combattere tra Siria e Iraq, dove spesso sono andati con mogli e figli. E un centinaio sono i «fratelli» tornati in Australia

Base di partenza per i volontari jihadisti, ma anche territorio dove gli estremisti sono cresciuti. Sono circa 200 i mujaheddin partiti dall’Australia per combattere tra Siria e Iraq, dove spesso sono andati con mogli e figli. E un centinaio sono i «fratelli» tornati in Australia, alcuni dei quali tenuti sotto controllo.
L’Australia è avvinghiata alla crisi mediorientale da una filiera che si è allargata nel corso degli anni. E come altri Paesi occidentali è diventata base di partenza per i volontari jihadisti ma anche territorio dove gli estremisti sono cresciuti. 
La storia del fondamentalismo in questa regione ha avuto due fasi. La prima porta al periodo d’oro di Osama bin Laden, con i militanti che dall’Oceania raggiunsero l’Afghanistan e il Pakistan. Almeno quaranta quelli noti. Erano un’avanguardia, poi ramificatasi in Libano, con gruppi locali, e in Asia, con le cellule della Jemaa Islamya, la fazione protagonista dell’attentato di Bali in cui, nel 2002, furono uccisi molti australiani.
Una strage seguita dall’infiltrazione degli attivisti coordinati dai fratelli Ayub. Presenza in parallelo a quella del movimento somalo Shebab, monitorata e contrastata dall’operazione Neath, nel 2009. Dunque, una base ideologica sulla quale si sono poggiati militanti ancora più determinati. 
I numeri raccontano di 150-200 mujaheddin australiani impegnati nelle file di organizzazioni come al Nusra – branca siriana di Al Qaeda – e, ovviamente, l’Isis. Combattenti che si sono distinti in molte azioni, anche suicide. Nel settembre 2013 Abu Asma al Australi si è fatto saltare in aria tra i soldati a Deir al Zour, Siria. Nell’estate del 2014 è toccato a Abu Bakr, autore di una missione kamikaze a Bagdad. Altri sono caduti in battaglia. Martiri venerati dai «fratelli» rimasti o tornati in Australia, almeno un centinaio, alcuni dei quali tenuti sotto controllo. 
La «carovana» jihadista ha portato molti dei futuri guerriglieri a spostarsi insieme alle mogli e ai figli, tutti uniti in una spedizione dall’esito incerto. 
Diversi i profili di elementi quasi sempre sulla trentina, spesso in possesso di nazionalità australiana e libanese, alcuni legati alla comunità turca. Il ricercatore Andrew Zammit ha citato, per esempio, la storia di una coppia, Yusuf Ali e la moglie Amira. Lui è nato in una famiglia cristiana, si è trasferito negli Usa ed è finito, dopo la conversione, nei ranghi di al Nusra. Lo avrebbero ucciso quelli dell’Isis insieme alla compagna. O ancora Caner Temel, un ex veterano passato prima con i qaedisti, quindi con il Califfo e infine deceduto durante una battaglia in Siria. 
Vite brevi rispetto a quella di un personaggio oggi molto noto: Mohamed Baryalei. Origine afghana, imparentato con re Zahir, per anni lavora come buttafuori davanti al night Love Machine Club e frequenta ambienti non certo consoni alla purezza della religione. Ma i guai con i soci dell’epoca lo costringono a far fagotto. Entra nell’Isis dove, secondo la polizia, assume la duplice funzione di ispiratore-reclutatore. Il suo nome emerge nell’indagine condotta a settembre sul presunto piano per decapitare un passante sotto l’occhio di una telecamera a Sydney. L’area scelta era la stessa della pasticceria Lindt. 
Altri australiani si fanno un nome con il sangue. Khaled Sharrouf, in contatto con esponenti malavitosi, si dedica al recupero crediti, per poi aderire al progetto del Califfo in Siria. Diventa famoso per le foto che lo mostrano assieme al connazionale Mohamed Elomar mentre mostrano delle teste mozzate. 
Al fianco di Khaled il figlio di soli sette anni che ne tiene in mano una. Un video, invece, celebra il ruolo di Abu Yahya as Shami, presunto leader Isis a Jalula, in Iraq. Luoghi che paiono così lontani dall’Australia ma che le tensioni, insieme al messaggio di lotta, hanno portato così vicini.