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 2014  dicembre 15 Lunedì calendario

La piaga mondiale della corruzione: 2.000 miliardi di euro l’anno sottratti allo sviluppo economico. Secondo l’Ocse il 10% delle opere pubbliche va disperso in mazzette. L’Italia al 69esimo posto con 60 miliardi di tangenti, la metà di tutta Europa

Nella sola settimana fra il 2 dicembre, giorno dell’arresto del boss di “Mafia capitale” Massimo Carminati, e il 9 dicembre, proclamato “Anti-corruption Day” dall’Ocse, da un capo all’altro del mondo si sono inseguite decine di notizie tutte uguali, tutte storie di corruzione e malaffare da centinaia di milioni di euro se non miliardi ognuna. In India è stato arrestato l’ex presidente della Satyam computer, Ramalinga Raju. In Cina stessa sorte e stessa accusa – corruzione – per Liu Tenan, capo della potente authority governativa “commissione per lo sviluppo”, mentre Zhou Yongkang, ex capo dei servizi segreti, è stato espulso dal partito sempre per la stessa ragione. In Iran, il presidente Hassan Rouhani ha lanciato un disperato appello: “Se la corruzione continuerà a questo livello, il senso della rivoluzione islamica del 1979 andrà disperso”. In Spagna, il ministro della Sanità, Ana Mato, si è dimessa travolta dallo scandalo di mazzette che ha investito il Partito popolare. A Bogotà una manifestazione popolare ha chiesto la cessazione della corruzione dilagante che macchia l’immagine della Colombia nel mondo. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Tutto il mondo è paese, si direbbe. Ma come nella Fattoria degli animali, qualche Paese è più paese degli altri. L’Italia purtroppo è fra questi, indicato da tutti gli organismi internazionali che studiano il problema come uno di quelli a più alto rischio. Trasparency International ci colloca ad un umiliante 69° posto nella classifica mondiale della corruzione dietro il Ruanda, il Ghana, la Turchia, la Georgia, la Croazia, ultimi in Europa a pari merito (merito?) con la Grecia.

Quanto costa la corruzione al nostro Paese? Incrociando i vari studi nonché le relazioni della Corte dei Conti e del ministero degli Interni, si calcola intorno ai 60 miliardi di euro l’anno, il 4% del Pil del nostro Paese, nettamente al di sopra della media mondiale. Dieci volte la manovra aggiuntiva che ci chiede la commissione Ue per rientrare nei parametri, il doppio dell’ammontare in tre anni della spending review. È la metà del valore dell’intera Ue, secondo i calcoli della Commissione. «La cifra è calcolata inevitabilmente con qualche approssimazione, ma anche se fosse dieci miliardi in più o in meno, nella sua enormità denota l’esistenza di un drammatico freno allo sviluppo e di un’incoercibile resistenza per gli investitori internazionali», commenta Brunello Rosa, capo economista del Roubini Global Economics, che ha redatto uno studio sulla corruzione in Europa con particolare focus sull’Italia, cui ha collaborato anche Raffaele Cantone, capo dell’Authority creata ad hocdall’attuale governo.

Quanto alle cifre globali, c’è da rabbrividire. La Banca Mondiale ha recentemente aggiornato la sua triste contabilità della corruzione, portando il totale globale dei fondi neri ad essa “dedicati” a 2,3 trilioni di dollari, circa 2 trilioni di euro, duemila miliardi. È il 2,3% del Pil mondiale che è di 85 trilioni di dollari. Di questi, calcola la World Bank, la metà riguarda direttamente i Paesi in via di sviluppo, sono cioè fondi sottratti alla cooperazione, agli aiuti finanziari, alle donazioni occidentali (come già denunciò anni fa l’economista africana Dambisa Moyo in Dead Aid), insomma a qualsiasi intervento che sarebbe cruciale in aree dove ogni centesimo è preziosissimo. I fondi finiscono nei conti segreti alle Cayman, a Montecarlo, in Svizzera, dei dittatori e dei manutengoli locali. Il think-tank americano Global Financial Integrity ricorda che si parla di 3 miliardi di dollari al giorno in una fascia del mondo in cui muoiono ogni anno per fame e stenti 18 milioni di persone, 50mila al giorno: «Quanti di questi si potrebbero salvare?». Tutto il mondo, che sia emergingo no, viene periodicamente percorso da febbri risanatorie più o meno sincere. In Cina un’operazione di pulizia, almeno a parole, è in corso proprio in questi mesi su iniziativa dello stesso presidente Xi Jinping. Ma altrove, a partire dalla Russia e Paesi satelliti, lo scenario resta sconfortante.

In occidente non è che il quadro sia migliore. Ogni Paese ha avuto la sua Tangentopoli. In America, all’inizio degli anni 2000 il giudice Eliot Spitzer lanciò un crackdown (“stretta”) sulla corruzione che portò in galera decine di pubblici ufficiali e capitani d’industri, e si concluse con una legge, il Sarbanes- Oxley Act, che nel 2002 introdusse un regime durissimo e in effetti qualche miglioramento l’ha portato, anche se siamo lontani da un vero risanamento. L’Ocse, che in occasione della “giornata mondiale” di cui si parlava ha predisposto a sua volta un corposo rapporto, dimostra che nei Paesi che ne fanno parte fra mazzette e ruberie simili se ne va in media il 10,4% del valore di ogni infrastruttura pubblica nonché una media del 30%, con punte superiori al 40, del profitto derivante dall’opera: pedaggi, biglietti, royalty di accesso et similia. Due terzi dei casi di corruzione transnazionale ricadono in quattro settori: estrazione di idrocarburi e altre materie prime (19%), costruzioni (15%9, trasporti (15%), informazione e comunicazione (10%). Nel 53% dei casi è direttamente colpevole qualche dirigente dell’azienda corruttrice, e nel 12% il Ceo. «Non vale quindi indicare le “mele marce” di un sistema quando questo è corrotto dal vertice», scrive il rapporto. Ancora nel Bribery report dell’Ocse (datato 3 dicembre 2014) si legge che tre affari viziati su quattro sono condotti attraverso intermediari, ma questi intermediari sono nel 35% dei casi “veicoli” della stessa impresa che corrompe i pubblici ufficiali, come filiazioni in un paradiso fiscale, broker in house, società di marketing in qualche modo collegate con l’azienda.

«La prevenzione del crimine finanziario dev’essere al centro della governance economica», ha scandito Angel Gurria, che dell’Ocse è segretario generale. L’organizzazione ha analizzato in dettaglio 427 casi di corruzione internazionale acclarata (con processi conclusi) che si sono sviluppati nei “suoi” Paesi, i più avanzati del mondo, per un importo totale di 1,8 miliardi di euro. Nella maggior parte dei casi (57%) le mazzette sono state offerrte (e accettate) per l’assegnazione di appalti pubblici, nel 12% per accelerare procedure doganali e poi per altre agevolazioni varie. «I pubblici ufficiali sono stati corrotti in 24 Paesi sui 41 della nostra organizzazione, e su 15 Paesi del G20», ha specificato allarmato Gurria. «Nell’11% dei casi, le tangenti sono andate a ministri o capi di Stato». L’Ocse trae le sue conclusioni: troppo pochi casi si sono conclusi con l’arresto dei colpevoli (80), la maggior parte si sono risolti con ammende e qualche confisca. Oltre all’inasprimento delle pene l’Ocse raccomanda una miglior protezione dei “delatori”, e ricorda che ancora incompleta è l’attuazione della direttiva europea del 2004 che, seguendo le indicazioni che la stessa Ocse aveva formulato nel lontano 1997, esclude da successive gare internazionali gli operatori colpevoli in qualche precedente caso di corruzione. «Invece solo a due delle 115 società che avevano pagato tangenti per assegnazioni pubbliche, è stato proibito di fare offerte per successivi appalti».

Proprio sulla base delle raccomandazioni dell’Ocse sono state redatte le leggi nazionali anticorruzione, solo che ci sono voluti molti anni: la Gran Bretagna si è dotata di un convincente Bribery Act nel 2010, e l’Italia addirittura nel 2012: è la legge che adesso Renzi vuole emendare nei punti indicati dall’Ocse: dall’allungamento della prescrizione e inasprimento delle pene alla sospirata e tuttora incerta ripenalizzazione del falso in bilancio. «Il modello di valutazione sistematico che noi abbiamo approntato permette di fare una comparazione su scala da 1 a 10 dell’impatto economico della corruzione e dell’inefficienza dei processi decisionali che a essa è collegata, dando un’idea del valore economico che deriverebbe dalla soluzione di queste due piaghe», dice Rosa dell’Rge ( vedere tabella in pagina). «La capacità di attrarre investimenti, la qualità dell’ambiente di business, l’efficacia della decisione politica, è per l’Italia inferiore a tutti i Paesi concorrenti e a livelli comparabili con i Paesi emergenti di crescita come i Bric, che però possono contare su altri fattori di competizione di prezzo, dai bassi salari ai tassi di cambio artificialmente svalutati».

Elaborando i parametri economici dei danni della corruzione, si scopre un’infinità di effetti indiretti: «Prendiamo l’incentivo all’emigrazione dei cervelli», spiega Rosa. «Un ambiente a competizione truccata, o percepito come tale, costituisce un formidabile incentivo ad abbandonare il Paese per chi, persona o impresa, intende basare il proprio successo solo sulle capacità, sull’impegno, sul merito, sui titoli acquisiti». Le conseguenze si dipanano in una catena diabolica: «Le imprese sane, non disposte a scendere a bassi compromessi, sono disincentivate dal partecipare alle gare d’appalto finendo per l’uscire dal mercato peggiorando così l’eticità media del tessuto produttivo». L’unico modo per interrompere questa catena, in Italia come nel resto del mondo, è bloccare sul nascere in ogni modo possibile, disincentivando e punendo, le operazioni di corruzione.