la Repubblica, 15 dicembre 2014
«La mia fortuna è stata di nascere in una famiglia di intellettuali, con un padre professore universitario di matematica e una madre chimica. Molta gente frequentava la nostra casa, e si parlava di scienza e di matematica: è così che io mi sono appassionato». Parla Ngô Bao Châu, primo e unico indocinese ad aver ottenuto la medaglia Fields
Ngô Bao Châu è il primo, e finora l’unico, indochinese ad aver ottenuto la medaglia Fields. A questo onore è arrivato nel 2010, dopo aver vinto per ben due volte da ragazzo le olimpiadi di matematica: una successione di eventi che si è già prodotta una decina di volte, a dimostrazione del fatto che la matematica è, come diceva Godfrey Hardy, “uno sport da giovani”. Abbiamo incontrato Châu al meeting di Heidelberg di settembre, e con lui abbiamo parlato della situazione della matematica in Vietnam.
Nato ad Hanoi nel 1972, è diventato nel 2005 il più giovane professore della storia del suo Paese, in cui oggi dirige l’Istituto di Studi Avanzati, creato nel 2011 anche in seguito alla medaglia Fields, ottenuta per la risoluzione del lemma fondamentale, un problema con un ruolo centrale nella teoria delle forme automorfe di Robert Langlands e Diana Shelstad.
Lei è nato ormai alla fine della guerra del Vietnam. Com’erano le scuole durante il conflitto, e subito dopo?
«Ovviamente fu un periodo molto duro in generale, e per le scuole in particolare. La mia fortuna è stata di nascere in una famiglia di intellettuali, con un padre professore universitario di matematica e una madre chimica. Molta gente frequentava la nostra casa, e si parlava di scienza e di matematica: è così che io mi sono appassionato».
Ma ci furono periodi analoghi alla Rivoluzione Culturale cinese, in cui tutto si fermò?
«Non direi. Ci furono persecuzioni, ma soprattutto negli anni ’50, nell’intervallo fra le due guerre con i francesi e gli statunitensi. Ed erano cose dirette più contro i proprietari terrieri, per la riforma agraria, che contro gli intellettuali».
C’era una tradizione matematica in Vietnam?
«Non molta. Certo niente di paragonabile a quella dell’India o della Cina. C’era una buona tradizione culturale, ad esempio nella ragioneria: i vietnamiti erano regolarmente usati dai francesi come impiegati statali, anche in paesi come il Laos e la Cambogia, dove quella tradizione è meno presente. Ma per quanto riguarda la matematica vera e propria, si è cominciata a farla seriamente solo una cinquantina o una sessantina di anni fa».
Lei quando ha scoperto di amare la matematica?
«Alle medie. A dodici o tredici anni mi hanno bocciato all’esame di ammissione al Liceo per Studenti Dotati, una scuola istituita negli anni ’60 con tre piani di studio specializzati: matematica, fisica-informatica e chimica- biologia. Ma l’anno dopo mi hanno preso, e ritrovarmi insieme e in competizione con altri ragazzi bravi mi ha stimolato. A sedici e diciassette anni sono andato alle olimpiadi internazionali di matematica, e ho vinto entrambe le volte la medaglia d’oro: una volta con punteggio pieno, 42 su 42».
Io sono un po’ scettico su queste cose. C’è relazione tra la matematica “da competizione” e quella “vera”?
«Più di quanto si pensi. Le olimpiadi matematiche possono effettivamente dare un’idea distorta di quello che è la materia, ma servono ad abituare alla concentrazione che è necessaria per farla. Ci si prepara molto intensamente, come per le olimpiadi sportive. E prima di arrivare alle finali internazionali, bisogna passare le selezioni nazionali».
In seguito, dove ha preso la laurea?
«Il percorso tradizionale in Vietnam, dopo le superiori, sarebbe stato andare a studiare in Unione Sovietica o in qualche paese est europeo. Poiché per la preparazione delle olimpiadi mi ero immerso nella combinatoria, pensai che sarebbe stato interessante andare in Ungheria, dove viveva il grande esperto Paul Erdös. Così ho studiato l’ungherese per un anno, ma nel 1989 cadde il muro di Berlino e l’Ungheria cancellò le borse di studio. Per fortuna un amico di mio padre riuscì a farmene dare una dalla Francia».
Avrei pensato che fosse la scelta ovvia per un vietnamita. Non avevano studiato in Francia anche Ho Chi Minh e gli altri rivoluzionari?
«Al contrario: io fui il primo studente ad andarci in cinquant’anni! E Ho Chi Minh era stato sì in Francia, e in altri paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, ma a lavorare, non a studiare: aveva fatto il cuoco, il panettiere, il cameriere, il lavapiatti, il fotografo, eccetera. Naturalmente i rivoluzionari studiavano anche parecchio, ma non in maniera canonica, perché dovevano mantenersi. Ad esempio, il diplomatico che firmò gli accordi di pace di Ginevra nel 1954, Ta Quang Buu, era un matematico autodidatta di gran valore».
Quale fu il suo percorso in Francia?
«Agli inizi non parlavo la lingua, visto che ne avevo studiata un’altra. Andai anche malissimo all’esame di inglese, prendendo 2 su 20! Ma visto che andavo bene in matematica, mi presero alla Scuola Normale, e sono rimasto in Francia diciassette anni».
La Scuola Normale sarà stata un’esperienza straordinaria.
«A dire il vero, non mi piaceva la matematica che mi insegnavano, perché ero ancora sotto l’influsso di quella che avevo imparato per le olimpiadi. Ma ho stretto i denti, e poi ho fatto il dottorato con Gérard Laumon, che ha avuto come studente anche Laurent Lafforgue, vincitore della medaglia Fields nel 2002. È stato Laumon che mi ha fatto amare veramente la matematica».
Prima non le piaceva?
«No. Andavo bene, ma non capivo cosa ci stesse veramente dietro: questo di solito non si impara sui libri, ma solo dai maestri e a voce».
A proposito di scuole, cosa pensa del fatto che ci sia un numero sproporzionato di medaglie Fields francesi, rispetto ad altri Paesi?
«C’è anzitutto una grande traglia: dizione matematica nel Paese, da Cartesio a Bourbaki. Ma c’è anche un sistema molto efficiente, che permette ai giovani promettenti di far ricerca al CNRS
(Centro Nazionale della Ricerca Scientifica) senza dover insegnare. Sono pagati poco, e dunque non possono farsi una fami- cosa che, di nuovo, li concentra sulla ricerca. E poi non c’è pressione a pubblicare, così che ci si può focalizzare su progetti a lungo termine».
La situazione in Vietnam oggi è cambiata?
«Il periodo in cui ero studente io, credo sia stato il punto più basso della storia recente. Subito dopo la fine della guerra, negli anni ’70 e ’80, ci fu una specie di autarchia intellettuale, senza contatti col resto del mondo. Negli anni ’90, la crisi economica provocò una fuga in massa dalle università di professori e studenti. Ma dopo la caduta del muro i paesi occidentali aprirono le porte ai giovani vietnamiti, e ormai centinaia si sono laureati e addottorati all’estero. Il problema, ovviamente, è che molti ci rimangono».
Lei non è mai tornato a viverci stabilmente, vero?
«No. Dopo la Francia sono andato negli Stati Uniti, anche se a un certo punto mi hanno dato una cattedra nel mio paese. Ci vado regolarmente, insegno corsi estivi, e sono il direttore scientifico dell’Istituto Vietnamita di Studi Avanzati, fondato nel 2011».
E non pensa che ci tornerà definitivamente?
«Il problema è che là sono diventato una specie di celebrità: la gente mi ferma per la strada, il ministero vuole consulenze, e questo rende la vita molto difficile. Cerco di fare il possibile per attirare l’attenzione sulla matematica, ma lasciarsi coinvolgere innesca una catena a reazione, mentre la priorità deve andare alla ricerca. Vivere in due posti invece è un’ancora di salvezza: dopo un po’ torno a Chicago, dove ora insegno, e posso staccare dalla notorietà e concentrarmi sulla matematica».