Affari & Finanza, 15 dicembre 2014
Le grandi compagnie petrolifere ora sono nei guai di fronte alla caduta dei prezzi del greggio soprattutto perché per un decennio hanno speso moltissimo pur di rimpiazzare le riserve di idrocarburi consumate ogni anno, gettandosi in progetti al limite della razionalità economica, contando su prezzi del petrolio e del gas in continua crescita. E lo sforzo profuso non aveva dato i risultati sperati: la grande industria petrolifera, infatti, è riuscita a scoprire soprattutto gas invece che petrolio. Un bel problema, perché il metano ha un valore assai inferiore a quello del greggio
“Quando la marea si ritira, si vede chi stava facendo il bagno nudo.” Questa massima di Warren Buffett descrive la situazione di molte grandi compagnie petrolifere mondiali di fronte alla caduta dei prezzi del greggio.
Più o meno per un decennio, le cosiddette majors hanno speso moltissimo pur di rimpiazzare le riserve di idrocarburi consumate ogni anno. Nel farlo, si sono gettate in progetti al limite della razionalità economica, contando su prezzi del petrolio e del gas in continua crescita. Anno dopo anno, mentre i prezzi effettivamente aumentavano, sono venute meno le inibizioni e gli antidoti che avrebbero dovuto consigliare maggiore prudenza nella spesa. Ma ancor prima della caduta dei prezzi, lo sforzo profuso non aveva dato i risultati sperati: la grande industria petrolifera, infatti, è riuscita a scoprire soprattutto gas invece che petrolio. Un bel problema, perché il metano ha un valore assai inferiore a quello del suo parente più importante (il greggio), spesso è difficile da collocare sul mercato, e la maggior parte dei suoi margini è assorbita dai costi di trasporto e di liquefazione.
Questi difetti sono esaltati quando le scoperte avvengono in aree remote, dove tutto va costruito partendo da zero. È il caso del boom del gas australiano, una delle peggiori storie di investimento degli ultimi tre decenni. Dopo aver speso quasi 300 miliardi di dollari in pochi anni, con costi che aumentavano costantemente, le società petrolifere sono adesso pronte a vendere quel gas in perdita strutturale. E sarebbe stato così anche se i prezzi del petrolio (a cui sono indicizzati quelli del gas in gran parte del mondo) non fossero crollati.
A peggiorare le cose, la grande industria è rimasta sostanzialmente fuori dalla rivoluzione shale americana, dominio di società di piccole e medie dimensione, alcune delle quali diventate col tempo giganti. Mancanza di visione, di capacità di capire per tempo i segnali e i fenomeni che – magari inizialmente sotto traccia – avrebbero determinato le evoluzioni più importanti, nel bene e nel male. Così, per esempio, la regina delle società petrolifere, la Exxon, nel 2005 bollò la rivoluzione dello shale gas come una “bolla temporanea”; poi nel 2009, con un cambiamento repentino, acquistò per 42 miliardi di dollari il più grande operatore americano di shale gas, poco prima che i prezzi del metano crollassero negli Stati Uniti, condannando la stessa Exxon a sostenere perdite che richiederanno anni prima di essere riassorbite.
I tanti errori (qui ne ho citati solo alcuni) delle grandi major petrolifere hanno tante spiegazioni. Anzitutto, un’assenza di visione strategica sorprendente, che ha spinto le società a seguire mode tipiche di altri settori come l’outsourcing, il taglio dei costi spinto all’estremo, la perdita di competenze distintive in termini di tecnologia e risorse umane. Per effetto di questo appiattimento, nel breve volgere di poco più di un decennio le major petrolifere sono diventate società troppo simili a tutte le altre, capaci di fare le stesse cose di una società cinese, russa o indonesiana. Tutte, infatti, una volta vinto un contratto, affidano gran parte del lavoro a terzi, cioè a società di servizi: sono queste ultime che oggi svolgono circa il 75 per cento (in termini di valore) del lavoro di esplorazione e produzione di petrolio e gas realizzato a livello mondiale. A peggiorare le cose, le major petrolifere hanno ridotto gli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico, vedendosi raggiungere o superare sul piano dell’innovazione e dell’abilità da nuovi soggetti, tra cui le società di servizi petroliferi e perfino società petrolifere nazionali come la brasiliana Petrobras (attualmente leader mondiale nella tecnologia delle acque profonde). Naturalmente, perdendo competenze distintive, hanno perso anche potere negoziale verso i paesi produttori, che hanno imposto condizioni contrattuali sempre peggiori e meno redditizie rispetto ai contratti di quindici o venti anni fa.
Adesso che la marea si è ritirata, per coprire le loro nudità le grandi società annunciano soprattutto tagli di costo più che di investimento, dove per costo si intende soprattutto il costo del lavoro. Un’altra trovata dalle gambe corte. L’industria petrolifera non ha un’alta intensità di lavoro, mentre ha un’altissima intensità di capitale. In altri termini, il costo del lavoro rappresenta una frazione ridotta di quanto ogni società investe ogni anno in nuovi progetti. Per quest’ultimo motivo, la selezione e l’esecuzione di un progetto sono i fattori che determinano il successo o l’insuccesso di una major. Ma per selezionare e eseguire bene un progetto occorrono competenze e risorse umane che invece l’industria continua a tagliare, sposando una ricetta utile per preparare disastri. O per perdere occasioni future.