il Giornale, 15 dicembre 2014
«Per rimettere in sesto la giustizia italiana servono giudici manager. La parola “azienda” mette in imbarazzo molte toghe. Ma si sbagliano». Parla Mario Barbuto, capo dipartimento dell’organizzazione giudiziaria
Presidente Barbuto, quello di Torino è diventato uno dei distretti giudiziari più efficienti in Italia. Come ha fatto?
«Quando sono diventato presidente del tribunale, nel 2001, l’arretrato era un oggetto misterioso. Perciò abbiamo intrapreso un lavoro indispensabile: abbiamo razionalizzato».
Detta così sembra facile...
«L’operazione in realtà è banale: abbiamo fatto una “targatura” delle cause pendenti, un’analisi “spettrale”. Insomma, una radiografia dello stato delle cose. Poi è stata presa la cifra globale e scomposta per anni. In questo modo abbiamo definito lo “stato di vetustà” delle pendenze, ci siamo concentrati sugli arretrati più vecchi e li abbiamo smaltiti».
Poi?
«Poi ho fatto un piano con alcuni giudici e abbiamo stilato un decalogo per la gestione delle cause. Ad esempio, sono stati proibiti i rinvii delle udienze se non per motivi specificamente giustificati, i rinvii “a vuoto” o superiori ai 40 giorni. Oppure, è stato chiesto di stilare le motivazioni delle sentenze in forma concisa e senza dilungarsi in questioni irrilevanti. Queste regole hanno funzionato galvanizzando i giudici, che hanno cominciato a dirigere i processi e non a subirli. Perché i giudici sono i direttori d’orchestra, e sta a loro farla suonare bene».
Ha incontrato resistenze?
«Certo, ognuno è affezionato al proprio metodo di lavoro. E io ho spiegato ai miei colleghi che erano liberi di non ascoltarci, ma non di ostacolare quel sogno ambizioso».
Quanto tempo ci è voluto per tornare al passo con i Paesi civili?
«Un anno o due».
Allora si può!
«Diciamo che bisogna provarci, poi i risultati arrivano».
Diciamo che servono dei manager anche nei tribunali.
«Per i giudici la parola “manager” è imbarazzante, ma i magistrati interpretano il concetto di “azienda” in modo sbagliato. L’azienda non è solo massimi profitti col minor costo, ma un organismo di risorse umane e materiali che persegue al meglio i suoi obiettivi. In fondo, nessuno si scandalizza se oggi gli ospedali si chiamano “aziende ospedaliere”. E negli ospedali si salvano vite, non credo abbiano meno rilevanza dei tribunali».
La differenza, però, la fanno le persone. In questo casi i giudici.
«Vero, non basta che un giudice sia equo, autonomo, onesto. L’efficienza dev’essere una qualità intrinseca di un giudice. Perché può anche scrivere splendide sentenze, ma se è inefficiente sono sentenze inutili».
Ora che è al ministero, pensa che l’Italia possa avvicinarsi agli standard europei?
«Il progetto realizzato a Torino si può estendere a tutto il Paese. Partendo dagli stessi presupposti: prima vediamo di fare la radiografia dell’arretrato. Dobbiamo separare le cause vere e proprie dalle separazioni, dai decreti ingiuntivi, dalle pratiche del lavoro, dalle tutele. Poi distinguiamo tra arretrato e giacenza, e concentriamoci sul “vecchiume”. Dei contenziosi ancora aperti, quelli con più di tre anni di anzianità sono 832mila, un numero che con impegno è possibile smaltire. Quindi incoraggiamo i giudici a intraprendere un percorso virtuoso».
Quanti anni ci vorranno perché il sistema giudiziario italiano sia degno di un Paese civile?
«Non faccio previsioni, ma di sicuro ce la metto tutta».