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 2014  dicembre 15 Lunedì calendario

Cause civili, la spaccatura tra Nord e Sud. Ogni tribunale ha tempi diversi: così i cittadini finiscono nei guai e le imprese per paura non investono. I procedimenti pendenti sono tre milioni, dopo di noi solo la Grecia

«Il tribunale è salvo!». Nella canicola d’agosto, ormai due anni fa, allo scampato pericolo brindarono stappando bottiglie di Cirò. Lo Stato non recedeva di un passo, le istituzioni non abbandonavano la Calabria. Il palazzaccio di Lamezia Terme sopravviveva alla scure con cui la riforma Severino ridisegnava la geografia della giustizia italiana, e la soddisfazione, da Cosenza a Reggio, fu grande. «Il tribunale è vivo, evviva il tribunale». Ora, però, toccava farlo funzionare. Passata la sbornia, restavano i numeri.
E un primato tutt’altro che lusinghiero. Lamezia Terme – raccontano i dati del ministero – è il tribunale meno efficiente d’Italia. Nel quale per venire a capo di un causa civile servono in media 1.278 giorni e molta, molta pazienza. L’alternativa è prendere l’auto, viaggiare fino allo sfinimento e fermarsi a Tortona, dove lo stesso procedimento si conclude dopo 172 giorni. Quasi un rapporto di uno a otto. Due pianeti diversi, ma è sempre Italia.
Eccola, la fotografia di una Paese nel quale entrare in un tribunale dà le stesse certezze di una schedina del lotto. Non c’è alcuna omogeneità nell’amministrazione della giustizia. E in un certo senso, non c’è nemmeno democrazia: non tutti sono uguali davanti alla legge. Non lo sono i cittadini, ma nemmeno le aziende che prima di investire fanno due conti sull’efficienza del sistema. E dopo averci pensato finisce spesso che ci rinunciano, perché la giustizia-lumaca costa agli imprenditori qualcosa come un miliardo di euro l’anno.
Ma come si fa ad avere fiducia con oltre tre milioni di procedimenti civili arretrati, se siamo penultimi in Europa davanti solo alla Grecia, e se a seconda della latitudine i nostri tribunali sono da (quasi) primo o terzo mondo? Perché è questo che accade: intentare una causa civile nei distretti di Messina, Salerno, Potenza, Catanzaro e Bari significa entrare in un tunnel lungo in media sei anni, mentre nei distretti di Brescia, Milano, Torino, Trieste e Trento, si respira un’aria assai più europea. Insomma: il Nord viaggia alla velocità doppia del Sud.
Ma è la giustizia italiana nel complesso che procede a singhiozzo, con rari casi di comprovata produttività e vaste sacche di inefficienza. Ed è un rompicado difficile da risolvere. C’è l’enormità dei 240mila avvocati che contribuiscono a «drogare» il contenzioso con uno sconfinato tappeto di cause bagatellari. Esiste poi un problema di distribuzione delle risorse, perché dagli anni ’90 a oggi il personale amministrativo dei tribunali è diminuito e le toghe sono aumentate, ma al Sud gli amministrativi abbondano e mancano i giudici, mentre al nord i magistrati sono sostanzialmente sufficienti ma scarseggiano cancellieri e segretari. C’è, ancora, un problema di aggiornamento professionale, che sembra poca cosa ma in realtà è un bel grattacapo se la riforma della giustizia telematica va spiegata a una platea di amministrativi over 50, ben lontani dal concetto di «nativi digitali». Infine, solo di recente si è capito che ai vertici dei tribunali servono sì magistrati, ma anche manager in grado di far viaggiare la macchina così come un direttore sanitario è indispensabile per l’andamento di un’azienda ospedaliera. Ma «manager», fino a pochi anni fa, suonava molto simile a una bestemmia, perché ai giudici bastava e avanzava di «insegnare» la legge. Peccato che dovessero anche farla funzionare.
C’è, infine, l’ostinata resistenza di un sistema refrattario all’idea di innovazione. L’ultimo esempio è proprio la riforma Severino, che ha chiuso tribunali ordinari, le sezioni distaccate e gli uffici del giudice di pace, tagliando quasi la metà degli uffici giudiziari presenti sull’intero territorio nazionale. Il problema, però, è che ne restano ancora tantissimi, più di mille, e alcuni sono letteralmente scampati alla scure del ministro.
Ma ha senso che il Comune di Mistretta (5mila abitanti in provincia di Messina) abbia un tribunale? Sono funzionali i palazzi di giustizia di Camerino, Orvieto, Lanusei, Acqui terme, Sulmona, Nicosia e Montepulciano? E ancora, perché un giudice di pace ad Acerenza, comune lucano in provincia di Potenza di 2mila abitanti, o Arcidosso, Badolato, Calabritto, e Carovilli, che vicino a Isernia conta mille e 400 anime? Sono utili le mini-procure «abitate» da un pugno di magistrati, a volte anche meno di quattro?
La risposta la dà un documento firmato da Luigi Birritteri, magistrato ed ex capo dipartimento per l’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi al ministero della Giustizia, in un illuminante documento pubblicato su una rivista di settore.
«La necessaria mediazione politica in sede di discussione parlamentare – scrive Birritteri – ha comportato l’adozione di una delega (...) condizionando le originarie potenzialità» della riforma Severino.
Perché se nel gennaio dello scorso anno il riordino della geografia giudiziaria è stato salutato dal primo presidente della Cassazione come «una svolta epocale», e gli effetti della riforma dovrebbero vedersi nel corso degli anni a venire, in realtà «rimane il rammarico – conclude Birritteri – di una grande occasione persa». Ecco, mediazioni politiche e occasioni perse. Sembra quasi di stare in Italia.