Corriere della Sera, 15 dicembre 2014
Le regole del romanzo fatte per essere violate. «Quanto più si scrive, tanto più si allontana ogni conclusione». La trasformazione dei codici non è figlia del Novecento: fu Sterne ad avviarla
Il romanzo che implode su se stesso e fa di tutto, fuorché raccontare una storia, non è solo del Novecento. Se ne hanno i prodromi, inquietanti per i contemporanei, nell’Ottocento. Del resto, non appena le forme del romanzo moderno vengono codificate dai fondatori – per Daniel Defoe la biografia fittizia, per Henry Fielding la concatenazione articolata dell’intreccio, per Samuel Richardson il susseguirsi a incastro delle lettere e il balenare della psiche individuale – vengono subito sfaldate. Arriva Laurence Sterne con Tristram Shandy a dissolvere tutto nell’infinito espandersi delle digressioni, e la storia non solo non finisce mai, ma anzi quasi non fa in tempo a iniziare, e quanto più si scrive, egli ci avverte, tanto più si allontana ogni conclusione.
Analogamente, dopo il consolidamento del grande romanzo realistico, nella seconda metà dell’Ottocento si hanno le prime fratture. Due esempi riguardano quello che viene chiamato il «romanzo senza storia».
Quando nel 1869 esce L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert, i primi critici indispettiti ci vedono (come ha mostrato Stefano Agosti nei suoi studi sul romanzo) un’arte che sopprime la composizione e sostituisce al quadro una serie di abbozzi, episodi staccati e giustapposti che non approdano a nulla, personaggi e tasselli che non si incontrano, avvenimenti senza causa e senza conclusioni: un pot-pourri.
Quel «romanzo non romanzato», indeciso come la vita, che si accontenta di scioglimenti privi di drammaticità, piace invece a estimatori che ne colgono la novità, come Théodore de Banville o Émile Zola, il quale vi ravvisa un precorrimento della tranche de vie che si può esibire e troncare come capita: la vita giorno per giorno, un succedersi di piccoli avvenimenti, niente scene-madre preparate o drammi eclatanti, bensì l’apparente sconnessione dei fatti. Un anticipo della sua (pur diversa) analyse, inclusa l’impossibilità di completare una storia.
L’analisi che si sostituisce alla storia diventa parola chiave. Capita a Henry James con Ritratto di signora nel 1881 (dove però, a differenza di Flaubert, le emozioni esplicite abbondano). Sgomenta e irrita che nulla venga detto della crisi coniugale di Isabel Archer e che non si abbia una vera conclusione: cosa farà dopo che ha sfidato il marito gretto e oppressivo e si è sottratta al pretendente focoso che vuol salvarla? James lo lascia volutamente, quasi maliziosamente in sospeso (del resto, aveva scritto, nessuna relazione narrativa si conclude mai). Vorremmo tutti saperlo, ma lui non lo dice, e al suo tempo la cosa non piacque troppo.
Per di più, James operava altre perverse o sospette sostituzioni: la protratta analisi psicologica, ad esempio la lunga vigilia di introspezione di Isabel nel capitolo 42 che – a suo stesso dire – fa progredire l’azione più delle grandi scene drammatiche; l’adozione del «punto di vista circoscritto» da cui narrare le vicende, lì usato solo parzialmente, ma poi predominante nei susseguenti romanzi, che non solo spezzetta il racconto, ma introduce incertezze sul reale svolgimento dei fatti e possibilità soggettive di interpretazione. Ogni conclusione è ulteriormente messa in dubbio.
In questo tipo di romanzo obliquo, dato di scorcio, c’è chi intravede l’inizio di una «scuola»: la scuola allora detta «analitica» che – con pari sconcerto o indignazione di alcuni, e timida soddisfazione di altri – sostituisce alla storia riprovevoli intrusioni in quella che si riteneva l’inviolabile santità dell’animo umano. Una violazione simile a quella che Zola e altri francesi facevano nel campo del sesso.
Si teorizza così, con aria di sfida e dubbi sulla sua possibile accettazione, come fa il romanziere del realismo reticente, l’americano William Dean Howells, «il romanzo che è uno studio analitico anziché una storia, che lascerà il lettore arbitro del destino delle creazioni dell’autore». Ma si accontenterà il lettore dello «studio», e lo appagherà il compito, di cui noi oggi approfittiamo fin troppo, di fare quanto spetterebbe allo scrittore, congetturando o immaginando quello che lui dovrebbe esplicitare?
Tre osservazioni finali. Anche i pittori impressionisti teorizzavano in quegli anni e venivano accusati di scomporre la composizione, e di attuare una pittura di paesaggio senza fabula, con sfrangiamenti continui, trovando eguali resistenze. Quello era il clima.
La storia continua poi senza concludersi (scusate il bisticcio) nel Novecento. Edward Morgan Forster avrebbe assicurato: «Oh, sì, certo, il romanzo racconta una storia», ma nel suo aureo trattatello, Aspetti del romanzo, illustra invece altri mille usi e modi di farlo. La verità è che nell’Ottocento (e un po’ ancor oggi) lascia interdetti non tanto il romanzo senza storia, quanto senza conclusione – quella conclusione che precedentemente negli ultimi capitoli ragguagliava su come andava a finire a personaggi grandi e piccoli: chi si sarebbe sposato e chi no, chi avrebbe prosperato e chi fallito, chi sarebbe vissuto a lungo e chi morto presto.
Pratica demodé, uscita dalla porta, ma rientrata dalla finestra, anche oggi: quanti film, specie basati su fatti reali, quanti teledrammi a sfondo storico o cronachistico si concludono con annunci su cosa sarebbe successo, a distanza di anni, a questo o quel personaggio, di questo o quel filo narrativo.