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 2014  dicembre 15 Lunedì calendario

Anche se pieno zeppo di lacune e siglato in extremis, l’accordo firmato ieri alla conferenza di Lima ha un valore storico: per la prima volta anche i Paesi in via di sviluppo accettano di prendere impegni precisi nella lotta contro i mutamenti climatici

 È zeppo di lacune da colmare prima del summit di Parigi, che tra un anno dovrà definire gli impegni ambientali per il dopo-Kyoto. È stato approvato in extremis, prolungando i lavori della conferenza in piena notte con i delegati dei 194 Paesi dell’Onu che già lasciavano la sala. E, con ogni probabilità, le azioni di contenimento delle emissioni di CO2 che si delineano non basteranno a limitare entro i due gradi centigradi l’aumento della temperatura dell’atmosfera: l’obiettivo «irrinunciabile» che gli scienziati hanno dato ai governi. Eppure l’accordo siglato ieri alla conferenza di Lima ha ugualmente un valore storico: per la prima volta non solo le potenze industriali, ma anche i Paesi in via di sviluppo accettano di prendere impegni precisi nella lotta contro i mutamenti climatici.
C’è ancora molta strada da percorrere per arrivare a un trattato davvero efficace, ma l’ostacolo che ha provocato uno stallo dei negoziati ambientali che dura da molti anni è stato rimosso: fino a ieri i Paesi emergenti si rifiutavano di partecipare a questo processo sostenendo che il problema dei gas-serra dovevano risolverlo le nazioni che l’avevano provocato: quelle industrializzate. Un’impostazione che era stata accettata dalla Ue ma non dagli Stati Uniti, che non hanno mai aderito al protocollo di Kyoto. La posizione degli emergenti, giustificata con l’esigenza di non frenare la crescita necessaria per recuperare il «gap» col mondo sviluppato è, però, diventata sempre meno sostenibile man mano che cambiavano i rapporti di forza: ormai più della metà dell’anidride carbonica immessa nell’atmosfera viene da questi Paesi, con la Cina nuovo primatista mondiale dell’inquinamento.
Il clima politico era cambiato un mese fa con l’accordo nel quale Cina e Usa hanno preso impegni reciproci di riduzione delle emissioni. Ma la conferenza ha rischiato di fallire ugualmente per il rifiuto di altri Paesi emergenti di seguire l’esempio di Pechino. Respinte tutte le bozze di mediazione, il presidente della conferenza, il ministro dell’Ambiente del Perù, ha continuato a lavorare di bizantinismi lessicali ottenendo alla fine il consenso su un testo che definisce la lotta al CO2 «comune a tutti», ma anche «differenziata in base alle situazioni nazionali». Solo a marzo, quando tutti i Paesi indicheranno quante emissioni sono disposti a tagliare, sapremo se da Parigi potrà uscire un patto significativo per proteggere il pianeta anche dopo la scadenza del protocollo di Kyoto. Col vincolo di ottenere il consenso unanime di 194 Paesi con interessi diversi non si poteva fare di più.