Corriere della Sera, 15 dicembre 2014
Egitto, i privilegi militari ai tempi di Al Sisi
Mi pare che in Egitto, con la presidenza di Al Sisi, si sia tornati più o meno alla stessa situazione che precedeva le cosiddette primavere arabe, almeno per quanto riguarda la politica interna (repressione o contenimento della Fratellanza Musulmana, ruolo dell’esercito, rispetto dei Copti) ed estera (rapporti con Israele e con gli altri stati vicini).
L’Egitto è tornato esattamente alla politica di Mubarak? Che cosa ne pensa? E mi permetto di chiederle: forse è meglio così?
Maurizio Davolio
Caro Davolio,
Dalla caduta della Monarchia nel 1952 i militari sono sempre stati protagonisti, anche se in forme e con ruoli diversi, della politica nazionale egiziana. Il colpo di Stato che si concluse con l’esilio di re Faruk fu progettato da un gruppo di giovani ufficiali che si erano affidati alla guida, più formale che sostanziale, del generale Naguib. Ma l’anima della rivolta era un colonnello, Gamal Abdel Nasser, che aveva combattuto contro gli israeliani nella guerra del 1948 e che sarebbe divenuto di lì a poco il leader della nazione. Furono i militari al momento della sua morte, nel 1970, che scelsero il suo successore nella persona di un generale, Anwar Al Sadat, che era stato compagno di Nasser negli anni delle cospirazioni anti-britanniche. E furono ancora una volta i militari, dopo l’assassinio di Sadat nel corso di una parata militare (1981), che designarono un generale dell’aeronautica, Hosni Mubarak, a cui veniva riconosciuto il merito di avere comandato una brillante operazione militare contro gli israeliani nella prima fase della guerra del Kippur (1973).
Da Nasser al maresciallo Al Sisi vi è quindi, anzitutto, continuità. Ma vi sono anche differenze che nel caso dell’ultima successione diventeranno probabilmente sempre più visibili con il passare del tempo. Mubarak era un uomo politico accorto, buon navigatore, capace di dare soddisfazione a diversi gruppi della società egiziana. Garantiva ai militari un ruolo nazionale, importanti stanziamenti di provenienza americana, la proprietà di industrie da cui traevano le risorse necessarie per garantire parecchi benefici ai componenti delle forze armate. Ma garantiva contemporaneamente alla società politica che avrebbe tenuto le forze armate nelle caserme. Era nemico della Fratellanza musulmana, ma abbastanza pragmatico da consentire che poco meno di 80 «Fratelli» entrassero all’Assemblea del popolo nelle elezioni politiche del 2005. Come molti altri leader medio-orientali voleva che il potere, dopo la sua uscita di scena, restasse nella famiglia e aveva già designato, in pectore, il figlio Gamal: una forma di nepotismo, senza dubbio, ma anche un passaggio dei poteri da uomini in uniforme a uomini in giacca e cravatta.
Con Al Sisi il quadro sembra essere alquanto diverso. Il maresciallo, a quanto pare, è molto più devotamente musulmano di Mubarak, ma anche più fermamente deciso a evitare che i Fratelli condizionino con la loro presenza il corso della politica nazionale. Per governare energicamente, soprattutto in questa fase, sembra contare sulle forze armate e sulla loro lealtà più di quanto accadesse all’epoca di Mubarak. Non si limita a garantire i privilegi dei militari. Li esorta a considerarsi anima e coscienza della nazione, garanti della forza e dell’unità del Paese contro i suoi nemici interni ed esterni. Vi è quindi il rischio di un regime maggiormente militarizzato. Ma non credo che le democrazie occidentali abbiano molte scelte. Se vogliono evitare che l’Egitto, come altri Paesi della regione, divenga ingovernabile, il loro interlocutore, almeno per il momento, è Al Sisi.