Corriere della Sera, 15 dicembre 2014
All’Unione Europea servirebbe oggi una leadership carismatica, altro che quel burocrate grigio di Juncker che bacchetta e ammonisce questo o quel Paese. I segnali indicano un maremoto in arrivo
È accaduto sovente che alla vigilia di grandi svolte storiche, e anche di tragedie, la scena fosse occupata da figure incolori, inadeguate, molto al di sotto dell’altezza e dello spessore, politico, morale, culturale, che sarebbero stati necessari per affrontare la tempesta in arrivo. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker sembra una di quelle figure: oggi è un grigio burocrate (già politico di lungo corso la cui attività è risultata assai eccepibile) che bacchetta e ammonisce questo o quel Paese. Apparentemente, sta solo facendo il suo mestiere di presidente della Commissione. Agisce come se vivessimo in tempi normali. Solo che i nostri tempi non sono normali, è come se l’Europa stesse oggi danzando sull’orlo di un burrone. Dietro a Juncker, naturalmente, non c’è il vuoto, c’è la dirigenza politica tedesca, uomini e donne per lo più solidi (a casa loro) ma anch’essi, apparentemente, incapaci di affrontare la crisi europea. Tra i principali protagonisti del dramma solo il presidente della Bce Mario Draghi appare consapevole della sua gravità.
Ricordiamo agli immemori quale sia la reale situazione. La Gran Bretagna ha già un piede fuori dalla casa europea e l’insorgenza dell’Ukip, il partito antieuropeista, minaccia di modificare radicalmente fra pochi mesi, nelle elezioni parlamentari, la fisionomia del sistema partitico britannico, un sistema tradizionalmente ultrastabile che affronta forti cambiamenti solo una o due volte per secolo.
Se poi la Gran Bretagna, nel giro di un paio d’anni, sotto la pressione dell’Ukip, uscirà dall’Unione, l’impatto sarà fortissimo, il «rompete le righe» risuonerà in tutti i territori europei.
Ma ciò non basta. Quanto accade in Francia è ancor più grave. Con i socialisti ai minimi storici e la destra gollista incapace di intercettare l’insoddisfazione dei francesi, il pieno dei consensi, secondo tutti i sondaggi, lo farà, a meno di imprevisti, il partito ultranazionalista, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. E se fosse proprio lei, nel 2017, il prossimo presidente francese? Sarebbe la fine dell’Unione Europea come la conosciamo.
I segnali indicano un maremoto in arrivo. All’Unione servirebbe oggi una leadership carismatica. Altro che Juncker. Occorrerebbero, nelle posizioni di vertice, menti creative capaci di proporre innovazioni, allo scopo di cambiare il tanto che non va e che è all’origine dell’ostilità di settori crescenti dell’opinione pubblica europea.
Se l’Unione andrà in rovina – si dice abitualmente – sarà un guaio per tutti gli europei. Nel lungo periodo, probabilmente, è vero. La consapevolezza di ciò, in teoria, dovrebbe bastare a spingere anche i vincitori del momento, i tedeschi, a rifare qualche conto. Basterebbe da parte loro un po’ di «egoismo illuminato», un egoismo che sappia guardare al di là del breve periodo, per convincerli della necessità di non assistere passivamente alla possibile rovina della casa comune. Ma sappiamo anche che l’egoismo tout court, di breve periodo, la vince di solito sull’egoismo illuminato. Né, naturalmente, si può gettare la croce solo sui tedeschi.
Nel lungo periodo, effettivamente, la crisi dell’Unione sarebbe probabilmente pagata da tutti gli europei. Nel breve termine, però, le cose andrebbero diversamente. Non ne risentirebbe più di tanto la Gran Bretagna. La Francia, forse, pagherebbe un conto economico salato, ma la Francia è anche un vero Stato-nazione, con istituzioni solide, in grado di resistere alla bufera. Anche la Germania pagherebbe un prezzo elevato, ma nemmeno le sue istituzioni correrebbero rischi immediati.
La situazione sarebbe assai diversa in altri Paesi, Italia in testa. È proprio perché l’Italia non è un vero Stato-nazione che, per decenni, ha investito simbolicamente, molto più degli altri Stati, nell’integrazione europea. Se l’integrazione verrà meno, l’Italia si troverà immediatamente ad affrontare i propri fantasmi, a fare i conti con la propria fragilità istituzionale.
Come tenere insieme i pezzi? Il problema non tocca naturalmente gli sfasciacarrozze, i vari movimenti antieuro, né in Italia né altrove. Riguarda o dovrebbe riguardare tutti gli altri.
Ha creato scandalo la notizia secondo cui la Russia finanzia massicciamente il Fronte Nazionale della Le Pen, ha rapporti con i leghisti italiani (che simpatizzano con Putin) e forse anche con altri movimenti antieuro. Ma non c’è da scandalizzarsi: sono le normali regole della competizione geopolitica.
C’è un rapporto inversamente proporzionale fra l’arroganza militare della Russia e la sua fragilità socio-economica. Gigante dai piedi d’argilla, la Russia ha bisogno che i suoi interlocutori in Europa siano ancor più deboli di lei. Per questo soffia sul fuoco, dà una mano ai movimenti antieuropei. In fondo, avrebbe solo da guadagnare da una irreversibile crisi dell’Unione. Un’Europa ulteriormente indebolita e divisa sarebbe, per i russi, un interlocutore malleabile.
Del resto, già oggi circolano, nei vari Paesi europei, forti correnti di simpatia per Putin. In un’Europa a pezzi diventerebbero ancora più forti le voci di coloro che chiedono rapporti sempre più stretti con la Russia.
Basta guardare una carta geografica e constatare la sproporzione territoriale fra la Russia e il resto degli Stati europei (a favore della prima) per comprendere quale, fra le rispettive tradizioni, finirebbe per prevalere sul Continente. Difficilmente, nel lungo periodo, la tradizione liberale dell’Europa occidentale potrebbe cavarsela di fronte alla concorrenza dell’autoritarismo russo.