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 2014  dicembre 12 Venerdì calendario

L’inutile guerra della Spagna contro Google. Per salvare la carta stampata Madrid ha introdotto il divieto di link, ma il gigante di Mountain View chiude il servizio News pur di non pagare una quota agli editori. Eppure la separazione giornali-Rete in Giappone funziona benissimo

Gli spagnoli, popolo di Don Chisciotte, hanno ingaggiato donchisciottesca battaglia contro il servizio delle news di Google per salvare Dulcinea, cioè la carta stampata. Tutto lascia pensare che andrà a finire proprio come la celebre sfida ai mulini a vento, ma intanto, dal 16 dicembre, Google ha annunciato che chiuderà in Spagna Google News, quando cioè fate una ricerca e scegliete l’opzione “notizie” per visualizzare le anteprime e relativi link agli articoli delle testate online indicizzate.
La chiusura è una decisione molto yankee di fronte a ciò che Google deve aver percepito come un colpo di mortaio, più che una provocazione: il Parlamento spagnolo ha approvato una «riforma della Legge sulla proprietà intellettuale» che dal prossimo gennaio obbligherebbe Google (e ogni altro aggregatore di notizie) a pagare una quota a titolo di «equa compensazione» agli editori per avere il permesso di pubblicare le anteprime delle loro notizie nel servizio News.
Nella riforma l’entità di tale «compensazione» resta indeterminata, ma questo espediente, che nell’intenzione del legislatore doveva sembrare un atto conciliante nei confronti di Google e magari dare luogo a una trattativa, ha invece finito per essere recepito dalla compagnia californiana per ciò che è: un atto di forza da parte di chi, molto probabilmente, non può permettersi di dettare le regole del gioco. Così ieri sul suo blog, Richard Gingras, capo di Google News, ha definito «non sostenibile» il nuovo approccio impostato dalla riforma, e la prossima chiusura del servizio in Spagna. In altri Paesi europei, come scriveva ieri El País, Google News è riuscito a trovare un accordo con gli editori: in Francia nel 2013 a fronte dell’uso delle anteprime ha versato 60 milioni di euro ai giornali per modernizzarsi, mentre in Germania è ancora in atto un contenzioso, ma tutto lascia pensare che gli editori non si spezzeranno ma si piegheranno, perché non vogliono perdere il traffico che arriva sui loro siti proprio attraverso Google.
Ma la strategia di Google con l’autoesilio spagnolo – che va in ogni caso ridimensionato perché sarà comunque possibile agli utenti arrivare alle notizie passando per il motore di ricerca “classico”, sebbene il giro sarà più tortuoso – si fa più chiara alla luce delle reazioni compatte di forte critica alla riforma spagnola. Come riassumeva efficacemente ieri Jaque Perpetuo, avvocato e blogger che si occupa di libertà d’informazione, in un pezzo sul sito de El Mundo: con l’approvazione della riforma, «l’Internet spagnola si pone in uno stato di eccezione permanente», e rincara: «la Spagna si rinchiude in un ghetto informativo».
Un ghetto in cui l’isolamento non è che uno dei problemi, perché come abbiamo detto in Rete c’è sempre un modo di aggirare questi protezionismi; l’altra questione, più preoccupante, è l’esorbitante controllo dello Stato sulla Rete, con la possibilità di chiudere o far emigrare all’estero gli aggregatori di contenuti, sbarrare link, e insomma pretendere di plasmare la libera ricerca online dell’utente spagnolo con norme tutte restrittive la cui reale capacità di ossigenare gli editori è tutta da dimostrare, e che quindi sembrano più ispirate a mania di controllo.
Se Google intendeva, con la sua mossa, far apparire la Spagna come un Paese incapace di rispondere alla sfida della comunicazione digitale e globalizzata, in cui gli utenti hanno appreso una specie di rozzo ma pratico esperanto per decodificare informazioni da tutto il mondo, il suo intento è stato coronato da pieno successo. La dimostrazione sta nel fatto che la preoccupazione, per gli spagnoli, sembra essere molto più quella di vivere in un paese in cui «Internet è un’eccezione permanente», un paese con una Rete a statuto speciale, con qualche scomoda affinità alla rete “addomesticata” dei regimi non democratici, che non quella di perdere l’accesso alle informazioni.
Così si capisce l’imbarazzo del ministro spagnolo della Cultura, Wert, che ha dichiarato che Google ha «precipitato le cose», visto che la quota da versare in «equa compensazione» agli editori non è ancora fissata: così facendo ha svelato che la riforma, più che essere calcolata su reali parametri economici che tornerebbero a beneficio degli editori, è stata abborracciata per tentare di far passare l’idea che Google News, che genera 10 milioni di clic al mese in tutto il mondo, deve spartire qualche briciola del bottino. L’idea potrebbe anche essere giusta, la realizzazione invece è la solita trovata di un’Europa che sta diventando sempre più levantina.
Giordano Tedoldi
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L’11 marzo del 2011, un sisma di magnitudo 9, con epicentro in mare e successivo tsunami, si abbatte al largo del Giappone settentrionale. Si tratta del terremoto più potente mai misurato nel Sol Levante, il settimo a livello mondiale. Ma questo lo sapete già. In pochi però sanno – non essendo in sé una gran notizia – che viene travolto anche il piccolo quotidiano locale Ishinomaki Hibi Shimbun: appena 14mila copie al giorno. I sei giornalisti, fortunatamente sopravvissuti, non pensano però a trarsi in salvo, ma si mettono a scrivere in diretta la cronaca del disastro. Poiché sono senza redazione e senza elettricità, la scrivono a penna (ideogrammi...), ricopiano i pezzi a mano, e li distribuiscono nei centri degli sfollati, fino a quando non riprendono a funzionare le fotocopiatrici. In seguito, il caporedattore Hiroyuki Takeuchi dirà che «qualsiasi giornale locale perderebbe la sua ragion d’essere se cessasse di fornire il suo servizio quando la sua comunità è in crisi».
L’episodio non spiega certo da solo perché l’industria dei giornali giapponesi vada in controtendenza rispetto al trend mondiale, ma aiuta. Qui l’attenzione per le news locali è sacra ed esiste ancora un rapporto di fiducia tra giornalista e lettore. Il giornale ce l’hanno tutti. Nessuno sale sul treno senza un quotidiano, comprato un po’ dovunque, con una distribuzione capillare, ma quasi mai in edicola. Addirittura il 92% dei giapponesi legge un giornale di carta. Meglio solo l’Islanda, col 96%, ma condizioni climatiche molto diverse... Del resto, parlano chiaro i dati di diffusione delle tre maggiori testate: lo Yomiuri, l’Asahi e il Mainichi Shimbun. Sono i tre quotidiani più diffusi al mondo. Lo Yomiuri, compresa l’edizione serale, vende 13,5 milioni di copie al giorno. Il più venduto in Europa, il Sun inglese, fa sorridere con 2,5 milioni di copie al giorno... Secondo i dati della locale Associazione dei Quotidiani e degli Editori, in Giappone si vendono ogni giorno poco meno di 50 milioni di copie. Le redazioni assumono giornalisti (!), anche a tempo indeterminato, gli abbonati crescono, i profitti che gli editori ricavano dalla carta stampata sono altissimi. I milioni di copie vendute dai quotidiani di carta rispecchiano posizioni politiche ben definite. È all’ordine del giorno, ad esempio, lo scambio di accuse tra l’Asahi Shimbun, schierato a sinistra al pari della tv pubblica NHK, e lo Yomiuri.
Eppure, da un recente rapporto del Reuters Institute Digital News, dietro questa vitalità emergono non poche ombre. Intanto, si registra una sempre maggiore attenzione dei lettori verso il settore digitale. Si apprende infatti che gli utenti hanno ricavato oltre il 50% delle loro informazioni settimanali da un portale come Yahoo Japan. E tuttavia resta un’evidente difficoltà dei giornali giapponesi nel confrontarsi col web. Mancanza d’interesse? Alti profitti che non incentivano gli investimenti? La paura di compromettere i lauti guadagni della carta stampata? A lungo molti giornali hanno addirittura rinunciato ad avere un sito; o lo hanno caricato con poche notizie, lasciando libero il campo a Yahoo News e ad altre testate online. Questa disattenzione ha permesso la nascita di vari portali, ormai così affermati da rendere impossibile la competizione a qualsiasi sito di giornale. Ecco le quote dell’informazione online: Yahoo News 59%, Google News 17%, i tre grandi quotidiani e la rete televisiva NHK, tutti insieme, tra il 10 e il 14%. Ma i potenti giornali di carta, al momento, non sembrano curarsene troppo. Sicuri di avere... i secoli contati.
Felice Modica