Corriere della Sera, 12 dicembre 2014
«Dopo l’incidente alla mano nessuno credeva che sarei ancora riuscito a danzare. Ma io sì. Ora so che quello che ho, domani può finire: basta un nulla, un piede messo male, te lo rompi e la carriera è finita. C’è un destino nella nostra vita». Parla Roberto Bolle, l’étoile italiana
Ci sono momenti, nella vita, in cui sembra di colpo accendersi una luce. Una luce che svela, brutale e improvvisa, quanto tutto sia incredibilmente fragile. Per Roberto Bolle si è accesa un giorno di qualche settimana fa, in una palestra di Londra. «Stavo preparandomi per il ritorno alla Royal Opera House, mancavo da cinque anni e non vedevo l’ora di salire su quel palco. Mi stavo allenando con dei pesi, ho fatto un movimento sbagliato nel rimetterli sul gancio e la mia mano è rimasta schiacciata». Un attimo. E anni di lavoro, di impegno, di dedizione potevano di colpo non contare più nulla. «Ho visto subito che la ferita era molto profonda, a pochi millimetri si vedevano i tendini. Ma riuscivo a muovere la mano: non li avevo toccati». Il peggio sembrava alle spalle dopo la prima medicazione, a teatro, ma due giorni di prove e di prese hanno riaperto la ferita, infettandola. «Sono andato al pronto soccorso, a Londra», racconta come se fosse perfettamente normale ritrovarsi seduti in sala d’attesa di fianco al ballerino più famoso del mondo. «In effetti mi guardavano con curiosità». Ma non ha chiesto aiuto al suo staff di medici? Non l’hanno accompagnata? «No, quando ho visto che la mano si era gonfiata così, mi sono detto che era meglio andare al pronto soccorso e l’ho fatto, ero solo», e intanto mostra le fotografie, impressionanti, della mano sformata.
«L’infezione è stata veloce e forte. Mi hanno ricoverato per darmi antibiotici per vena. Dovevo dormire con il braccio alzato ma, nonostante tutto, l’infezione stava estendendosi al braccio, diventava pericolosa». I medici lo preparavano al peggio, spiegandogli che «c’era l’ipotesi di un’operazione. A dire il vero hanno parlato di amputazione. Mi hanno detto: se l’infezione continua così, rischiamo di dover tagliare la mano». Ma mentre era ricoverato, Bolle pensava soprattutto a come «tutto quello che facciamo sia legato a un filo: bastava un centimetro più in là e sarebbe stata tutta un’altra storia».
La dose di fatalità
Crede nel destino? «Possiamo cercare di controllare le cose quanto vogliamo, ma nella vita c’è sempre una dose di fatalità. Se in molte situazioni siamo liberi di scegliere, in altre ci troviamo davanti a prove da superare che non dipendono da noi». Chi può contare su uno spirito ottimista, come l’ étoile, crede che da questi eventi «possiamo imparare, crescere come persone. Non accadono per caso». Per lui è stato fondamentale puntare sulla volontà: «Volevo fortemente tornare a ballare a Covent Garden, lo aspettavo da tempo e pochi giorni prima del debutto accade questo. I medici mi avevano detto che non sarei mai riuscito a fare lo spettacolo. Io però anche in ospedale facevo gli esercizi con le gambe e con i piedi. Mi ripetevo: non è che sono tutto malato». Dopo quattro giorni, ha ottenuto di tornare a fare le prove in teatro: «Ero in sala ballo con il braccialetto del ricovero perché poi dovevo rientrare in ospedale». L’ha tolto solo qualche minuto prima dello spettacolo: «Non credeva nessuno che sarei riuscito a farlo. Ma io sì, nonostante qualche dubbio quando le notti di ricovero si moltiplicavano». Del resto, «dopo tutto questa attesa, sarebbe stata una sconfitta troppo grande». Il pensiero di poter di colpo perdere tutto non l’ha atterrita? «È una lezione importante ma l’ho ben presente. So che quello che ho, domani può finire: basta un nulla, un piede messo male, te lo rompi e la carriera è finita. C’è un destino nella nostra vita».
La lezione che ho imparato
E oggi «mi sento più forte. Qualcosa di simile mi era successo a inizio carriera: avevo 19 anni ed ero appena entrato in compagnia. Dopo tre mesi mi avevano scelto come primo ballerino e io, in sala prove, mi sono fatto male. Sono dovuto stare fermo per cinque settimane, rinunciando allo spettacolo. Ma ho imparato lì una lezione che ora fa parte di me». E che lo porta anche a non dare nulla per scontato: «Farlo è un errore: non si apprezza quello che la vita ci dà anche nella bellezza di una giornata normale. Ci si abitua presto alle cose, bisogna imporsi di non farlo».
Ottimista lo è sempre stato, fin da bambino, «prima ero anche molto timido, ora va un po’ meglio», sorride. Ha tanti amici? «Sono un po’ introverso, non amo uscire e far casino con tanti amici. Ne ho sempre preferiti pochi, a volte mi piace proprio stare solo. Anzi, se sto con tanta gente per giorni sento la mancanza della solitudine». Dovendo scegliere, però, non si circonda di «gente cupa: la maggior parte delle persone a me care ha un approccio positivo alla vita». Non crede alla teoria degli opposti? «No, non penso funzioni molto – e ride, con una di quelle sue risate piene, di gusto —. Credo che si stia meglio con chi è simile».
In discoteca sono l’ultimo
Un’altra cosa che non è mai cambiata rispetto al passato, è l’amore per il ballo: «Quando i miei genitori guardavano i varietà, io, bambino, ballavo davanti alla tv. È la mia forma di espressione». La danza non la imbarazza mai? «Alcune volte sì». Tipo? «In sala ballo, quando ci sono i colleghi intorno che guardano». È l’eredità di un carattere introverso: «Anche nella mia famiglia, le emozioni sono sempre state un po’ trattenute». Con risvolti imprevisti. Ad esempio, «quando ricevo un regalo faccio fatica a far capire che sono contento. Inizio a dire: bello, grazie, no, no, mi piace, davvero. Mentre ci sono persone che si illuminano... come le ammiro. Ma io proprio non riesco a esplodere. Sento che sono controllato e fatico ad andare oltre questo controllo». Quindi in discoteca non è il primo che si butta in pista? «Io? Nooo... Se siamo in dieci sono il decimo. Del tipo: va bene, ok, se proprio vanno tutti, vengo anche io». Come si immagina tra dieci anni? «È difficile farlo per me perché mi piace dare importanza al presente. Credo rimarrò nel campo della danza, forse prenderò la direzione di una compagnia, magari della Scala. Ma non ne sono certo: la vita mi ha sempre stupito».