La Stampa, 12 dicembre 2014
Il premio Nobel Herta Muller racconta gli orrori del regime comunista di Ceausescu in un libro intervista: «Così è stato ucciso un popolo. La bruttezza unica eguaglianza»
Una sera sventa il tentativo del suo amico Rolf Bossert di buttarsi dalla finestra, lo tira dentro all’ultimo istante, lo rimprovera brutalmente di essersi scelto una serata conviviale per ammazzarsi. Ma quando lo lasciano libero, quando gli uomini di Ceausescu consentono al poeta di lingua tedesca di espatriare, Herta Müller impara una lezione importante. Per fare le valigie «devi ancora essere in possesso delle tue facoltà mentali», non puoi partire da pazzo.
Bossert arriva a Francoforte, parla per tre settimane ininterrottamente del regime, della crudeltà dei suoi aguzzini, braccato dalle paranoie. Poi si suicida. In anni recenti, la scrittrice tedesca ha scoperto che i servizi rumeni avevano dato il via libera all’espatrio di Bossert per un calcolo lucido: il suo progressivo impazzimento lo avrebbe spinto a togliersi la vita. Ed era meglio farlo morire all’estero che in patria. Eppure, l’ombra di uno dei servizi segreti più crudeli del Patto di Varsavia si è allungata negli anni persino su questa morte. Nonostante tutto, Herta Müller non ha mai creduto fino in fondo che Bossert si fosse tolto la vita.
Il libro-intervista del Nobel per la Letteratura con Angelika Klammer appena uscito da Hanser in Germania Mein Vaterland war ein Apfelkern (La mia patria era un torsolo di mela) è il racconto degli abissi di dolore in cui il terrorismo di Stato spinse lei e i suoi amici, ma è anche una testimonianza preziosa, autobiografica, dei suoi meccanismi di scrittura.
Herta Müller comincia Bassure in fabbrica, di nascosto. Il padre è morto da poco, la persecuzione del regime già molto pesante. Dopo il suo rifiuto di collaborare con la Securitate, i servizi mettono in giro la voce che è una spia. I colleghi la evitano come la peste, e «la scrittura rendeva la paura addomesticabile». Ancora oggi, altalenando tra l’urgenza di scrivere e la fatica di rivivere il passato tragico, Müller rivela che «il vissuto mi osserva di nuovo mentre scrivo, ma con uno sguardo diverso». In una dittatura «che rendeva due terzi della vita impossibile» e occupava la dimensione privata «con l’oppressione», l’intimità «cercava un riparo, ma i rapporti erano inquinati dalle pressioni politiche. Le amicizie erano preziose e pesanti, l’amore precipitava. I nervi impazzivano».
Negli anni di Ceausescu i suoi persecutori la interrogano di continuo, la spiano ininterrottamente. Il suo appartamento, quelli dei suoi amici, sono zeppi di microspie. Loro non lo sanno, lo scopriranno dopo la caduta della dittatura. Ma quello che sanno benissimo è che i servizi hanno le chiavi, che entrano ed escono dalle loro case quando vogliono. E lasciano segni. Herta Müller ha una pelliccia di volpe, la usa come tappeto. Un giorno la volpe comincia a perdere i pezzi. Una zampa, poi l’altra, la testa, la coda. Non sono pezzi strappati, sono tagliati con cura, sono segni inequivocabili del passaggio dei suoi aguzzini, momenti crudeli dell’onnipresenza del regime.
Il terrore è come un basso continuo. Ogni tanto qualcuno suona alla porta che le annuncia giorno e data del suo prossimo interrogatorio. Oppure la prelevano direttamente dalla strada, dal posto di lavoro, ovunque. E durante quegli interrogatori demenziali, in cui la accusano di prostituirsi con degli «arabi» o di fare contrabbando, la dignità ha sussulti inaspettati. Durante un interrogatorio particolarmente duro, il suo persecutore perde la pazienza, lei pensa che la voglia picchiare, lui si avvicina e le toglie un capello dalla spalla. Lei scatta, «me lo ridia, è mio». Lui glielo rimette sulla spalla: «teatro dell’assurdo», certo.
Le vere costanti degli anni di Ceausescu, oltre al terrore, sono l’ignoranza e la bruttezza. «La bruttezza onnipresente era l’unica uguaglianza del socialismo. Ed era voluta, era programmatica», perché rendeva «apatici e privi di aspirazioni». Sugli obbrobri linguistici dei burocrati stalinisti, Müller osserva che «la lingua aveva perso la ragione». E i funzionari che avevano riempito i ministeri e gli uffici pubblici «venivano spesso dalla campagna», erano «provinciali» e intrisi della tipica «pruderie staliniana». E non sono spariti con la caduta del muro di Berlino: «L’arrogante squallore dei funzionari comunisti è lo stesso ovunque, sembrano usciti tutti, ancora oggi, dalla stessa scuola di cadetti». E Müller ne cita uno per tutti: Vladimir Putin.
Nella Romania post comunista, un caso di delazione scosse la scrittrice tedesca più di tutti. Quello di Oskar Pastior, un amico caro, lo scrittore che l’aveva aiutata a ricostruire la vita nei gulag per «L’altalena del respiro». Dopo la sua morte, nel 2010, venne fuori che era stato una spia della Securitate; Müller reagì sconvolta. Ora, nel libro-intervista, mostra comprensione per un uomo che accettò di collaborare con i servizi poco dopo la devastante esperienza nel campo di lavoro staliniano e che comunque raccontò per anni dettagli «irrilevanti» ai servizi. Quasi a giustificarlo, Müller ricorda una sua massima dolorosa, «nessuno deve più aggrapparsi a me, sono irraggiungibile per umiltà, non per orgoglio». E nel libro non manca un atto di accusa forte nei confronti della Romania attuale: molti ex aguzzini della Securitate lavorano oggi nei servizi segreti; e gli atti del regime sono talmente lacunosi che il sospetto che molti documenti siano stati fatti sparire è ancora immenso.