La Stampa, 12 dicembre 2014
Ogni giorno 168 persone sono uccise dalla jihad globale. Cinquemilaquarantadue vittime, quasi il doppio dell’11 settembre: è il bilancio di sangue a novembre. Isis, Boko Haram e talebani in testa per attentati
Cinquemilaquarantadue vittime, quasi il doppio dell’11 settembre: è il bilancio di sangue causato in tutto il mondo dai gruppi jihadisti a novembre, 168 persone uccise al giorno. Un diluvio di 664 attentati, agguati, decapitazioni, esplosioni, morti e atti di sangue che il Centro internazionale per lo studio dell’estremismo e della violenza politica (Icsr) di Londra ha esaminato nel dettaglio arrivando a una radiografia del jihad globale: uccide in 24 nazioni ma l’80% delle vittime si registra in 14 ed è l’Iraq dove miete più vittime, seguito dalla Nigeria palcoscenico di Boko Haram, dall’Afghanistan teatro della rinascita dei taleban e dalla Siria.
Nuove forme di attacchi
Per avere un’idea delle dimensioni delle stragi, novembre è stato un mese nel quale ogni giorno i gruppi jihadisti hanno messo a segno l’equivalente di tre attacchi alla metro di Londra del 2005. Gran parte delle vittime sono di fede musulmana, mentre le modalità degli attacchi si allontanano sempre più dagli aerei-kamikaze dell’11 settembre come dagli attentati alle metro di Madrid e Londra, perché a prevalere sono imboscate, sparatorie, bombardamenti e più in generale operazioni – anche di pulizia etnica – tese a controllare degli specifici territori.
Gli obiettivi
La priorità dei leader del jihad 2014 sono diverse dall’Osama bin Laden 2001 o da Abu Nidal negli Anni 80: il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi vuole consolidare ed espandere il proprio Stato islamico, Al Nusra punta a controllare aree più vaste in Siria, Boko Haram a spazzare via i cristiani dalla Nigeria del Nord e i taleban accarezzano il miraggio di tornare a controllare Kabul. Se a ciò aggiungiamo che Al Qaeda in Yemen sfida le truppe di Sana’a, gli Shaabab somali combattono per Mogadiscio, ciò che resta della vecchia Al Qaeda è arroccata nel Waziristan e la Libia è contesa fra opposte milizie, ne emerge il quadro di un jihad globale intenzionato a controllare territori, città e villaggi eliminando le popolazioni che considera nemiche e soprattutto «infedeli» secondo i criteri più rigidi della «Sharia», la legge islamica.
I caduti fra i miliziani
I dati esaminati suggeriscono anche considerazioni sull’identità dei jihadisti perché fra le loro circa 1000 vittime la maggioranza non appartiene a Isis e Al Qaeda, segno che gli eredi di Bin Laden sono più abili nel portare la morte – vantano il 44% delle vittime – e anche nel mettersi in salvo rispetto agli altri 15 gruppi esaminati, a cominciare dai miliziani di Boko Haram, che subiscono invece le perdite più ingenti: ben il 60% del totale.
I droni non bastano
Gli autori del rapporto non traggono conseguenze specifiche, ma basta la lettura di numeri e cartine per accorgersi che il suggerimento per l’anti-terrorismo è di mutare tattica: le operazioni di intelligence, anche se sostitute da droni e truppe speciali, non bastano più, servono truppe di terra per riconquistare le aree dove i jihadisti hanno santuari che assomigliano sempre più a Stati. «Ben lungi dall’essere sconfitti, i jihadisti si stanno rafforzando imponendosi come protagonisti di nuovi conflitti e instabilità politica – conclude lo studio – e il loro più spettacolare risultato è la creazione del Califfato» proclamato a giugno da Al-Baghdadi sui territori dello Stato islamico che si estendono dalla periferia di Aleppo a quella di Baghdad.