la Repubblica, 12 dicembre 2014
Mettere neri in catene in uno zoo umano è arte? L’installazione del regista sudafricano Brett Bailey fa scandalo. Vietata a Londra va in scena a Parigi tra le contestazioni. Gli attori si difendono: «È un progetto sul perdono, serve a lasciarci questo passato alle spalle»
La Venere Ottentotta, attrazione delle fiere con le sue natiche enormi, gira su un piedistallo come un carillon. Angelo Soliman, schiavo e poi valletto dell’imperatore d’Austria, piange in un letto, il volto bianco: è stato appena scorticato e impagliato. Due guerrieri boscimani sono appesi in mezzo ai trofei di caccia nel salone di un colone locale. Una schiava con le catene al collo aspetta il suo padrone. Un uomo cerca di parlare, ma non può: ha una maschera di ferro. Da una cesta spuntano mani mozzate, quelle dei servi che non lavoravano abbastanza nelle piantagioni di caucciù. In fondo al percorso c’è una donna seduta al di là di una griglia: lo spettatore deve fermarsi. È la fine della white zone. L’inizio dell’Apartheid.
C’è silenzio, una pace irreale intorno allo zoo umano di Brett Bailey. Il regista sudafricano ha portato il suo “Exhibit B” nel centro culturale 104 di Aubervilliers, periferia di Parigi. Non è uno spettacolo, ma una “installazione teatrale”. Una serie di tableaux vivants, di performance statiche con attori che non parlano mai. Guardano. Sguardi insostenibili. «Non riesco a guardare gli attori negli occhi», è il commento che ripetono i passeggeri di questo strano e terrificante viaggio nel tempo, non così remoto, in cui l’Occidente faceva di tutto per «disumanizzare, sottomettere, saccheggiare» popolazioni considerate «inferiori», come spiega Bailey.
Dopo le proteste e gli scontri di qualche giorno fa, il 104 è circondato da volanti della polizia. L’intero perimetro è chiuso al traffico. I biglietti non sono più in vendita. Attraverso “Exhibit B”, il regista vuole denunciare il razzismo, ma secondo alcuni gruppi l’installazione offende la dignità delle persone di colore. L’attore Eric Abroguoua, che partecipa alla performance, ironizza: «Mi hanno detto “falso nero”, oppure “sei la vergogna degli africani”. Tra un po’ servirà una patente per essere un vero nero». È una memoria che fa male, disturba le vittime e i carnefici. «Ho voglia di piangere, non ho mai visto nulla di così sconvolgente», dice Sabine, studentessa di Storia. «Nessuno mai ci ha raccontato cos’è davvero successo».
Ogni spettatore-visitatore ha un numeretto che lo fa avanzare nel percorso, così come sono nu- merati gli “esemplari” mostrati. 22033, 45789, 21098. Le stanze e le scene si susseguono, una dopo l’altra. E ogni volta è un pugno nello stomaco, una profonda vergogna, un senso di impotenza. Tutto avviene nel silenzio, con un sottofondo di musica. L’Ave Maria all’ingresso e un canto della Namibia alla fine, in mezzo a crani e teste mozzate, ispirati ai campi di sterminio del Dottor Fisher in Sudafrica. «Al di là delle polemiche, è un progetto necessario», spiega l’attrice Priscilla Adade-Helledy. “Exhibit B” è stato vietato nel settembre scorso al Barbican Center di Londra proprio a causa delle accuse di razzismo. Il comune di Parigi ha deciso di mantenere il progetto artistico. Anche la giustizia francese non ha voluto bloccare lo spettacolo. Le imponenti misure di sicurezze hanno però convinto gli organizzatori ad accorciare di due giorni la programmazione: “Exhibit B” finirà stasera e non più domenica.
Il pubblico si ferma davanti a ogni scena. Nessuno osa parlare. Ci sono cartelli con riferimenti storici ma anche allusioni al razzismo di oggi. “Oggetti trovati” davanti a un somalo morto qualche anno fa a Roissy, oppure a due migranti schedati per età, origini, tratti somatici, impronte. «È un progetto sul perdono. Serve a ricordare, ma anche a lasciarci alle spalle questo passato», racconta William Mouers, altro protagonista della performance. Forse proprio le reazioni provocate da “Exhibit B” dimostrano che esistono ancora nervi scoperti, ferite non rimarginate. L’ultimo zoo umano, a Bruxelles, è stato chiuso solo a metà del Novecento. Fino al 1974 gli organi della Venere Ottentotta erano esposti al Musée de l’Homme di Parigi. E ora che la Venere è qui, molti abbassano lo sguardo. Lei finalmente è libera, ma nelle stanze che si susseguono ci sono ancora troppe gabbie.