Libero, 11 dicembre 2014
Lo scandalo della Terra dei fuochi era solo una grande bufala, lo dice la Cassazione: «I prodotti coltivati lì sono sani». Smontato così il luogo comune su terreni inquinati e frutta e verdura velenose. Ma ormai reportage allarmisti ed editoriali di denuncia (vedi Saviano) hanno messo la Campania in ginocchio
I prodotti erano sani. La Cassazione ha stabilito che la zona napoletana di Caivano non era avvelenata e neanche i suoi prodotti: che erano sani. Mezzo mondo aveva urlato il contrario (compreso il tribunale del Riesame) ma ora la Cassazione farà giurisprudenza e tutti dovranno adeguarsi.
Poco più di un anno fa la letteratura giornalistica aveva tramutato quella zona in una Chernobyl, riprendendo l’espressione «terra dei fuochi» che il Rapporto Ecomafie del 2003 aveva utilizzato per primo: senza contare che intanto c’era stato Gomorra di Roberto Saviano e soprattutto il disastroso rapporto dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) che aveva dipinto come avvelenato l’intero quartiere di Pianura. Poi tutto a cascata: studi e ricerche che improvvisamente pretesero di spiegare tutti i tumori della Campania, i prodotti di quella zona rinomata bollati come avvelenati. La grande distribuzione del Nord Europa chiuse i cancelli, Corea e Giappone interruppero l’importazione della mozzarella, la vendita di prodotti locali meravigliosi – e sani – si contrasse in tutto il mondo.
Il prodotto interno lordo della Campania fu messo in ginocchio, bene che andasse i mercati ortofrutticoli rivendevano la merce sana ai mercati del Nord che poi la rivendevano come propria.
Fioccarono libri, reportage, documentari d’approccio terzomondista, comitati d’allarme, laboratori, gruppi su Facebook, blog di denuncia, mappe interattive, romanzi, carriere di neo savonarola della monnezza, su tutto una vergognosa puntata di Servizio Pubblico (dicembre 2013) che s’inventò addirittura delle scorie nucleari e una «epidemia di tumori» che in Campania massacrava bambini e ragazzi per colpa dei rifiuti del centronord. Ma la Cassazione, ora, ha dissequestrato la zona di Caivano e ha stabilito che i prodotti erano sani.
Nell’autunno 2013, quando il Corpo Forestale sequestrò 40 ettari di terreno, i titoloni dei giornali seminarono un comprensibile panico. La Procura di Napoli bloccò campi e prodotti perché ritenne che vi fossero contaminanti pericolosi nelle acque usate per irrigare: floruri, manganese, arsenico, sostanze presenti in natura ma che a dire dei magistrati oltrepassavano le soglie di rischio. Un’interpretazione restrittiva, osservarono in molti.
Seguirono mesi di nuove analisi su analisi che però evidenziarono – già allora – che i prodotti erano sani: ma i vari imprenditori, già in ginocchio, dovettero ridisporre tutti i controlli a proprie spese.
Il sito Fanpage.it, più di altri, documentò gli effetti dell’allarmismo mediatico che costrinse molte grandi aziende a disdire moltissimi contratti: ma il paradosso – prodotti sani in terreni che restavano sequestrati – spinse alcuni agricoltori campani a proseguire la battaglia. Così chiesero il dissequestro dei terreni e sostennero che la legge era stata applicata a sproposito, anche perché i valori dei presunti contaminanti erano gli stessi dell’acqua potabile: ma il tribunale confermò la decisione dei pubblici ministeri, dunque i sequestri.
Intanto il governo, anzi i governi – sempre sensibili all’emergenza del giorno – tentarono di muoversi. Il consiglio dei ministri del dicastero Letta introdusse il reato di combustione dei rifiuti, la perimetrazione delle aree agricole, il controllo dei terreni, la bonifica dei territori interessati. Di studi ce n’erano già stati tanti: da quello dell’Istituto Superiore di Sanità (fine 2012) a uno dell’Organizzazione mondiale della sanità (2009) a un altro studio sanitario denominato Sebiorec (2010) con risultati tutt’altro che allarmanti, pur convergenti nell’indicare la necessità di sorvegliare di continuo la situazione.
I territori inquinati coltivati risultavano appena l’1 per cento del totale della Campania, sosteneva il dipartimento di Agraria dell’Università Federico II di Napoli. Poi, nel marzo scorso, le indagini conclusive e ufficiali coordinate da tre ministeri competenti, ossia una mappatura che «merita tutta la considerazione possibile in questa materia», ammise il magistrato Raffaele Cantone. Risultato: il territorio inquinato, in Campania, corrispondeva al 2 per cento del territorio, dunque a meno dell’1 per cento del suolo agricolo. C’erano solo 64 ettari sui quali era necessario «garantire la sicurezza della produzione agroalimentare».
Questo sinché gli agricoltori di Caivano ottennero anche la sentenza della Cassazione, che il 19 settembre scorso ha annullato ogni sentenza precedente e ha spiegato che la legge era stata interpretata un po’ così. E ora, in assenza di avvelenamento, ha definitivamente autorizzato la vendita dei prodotti. Che erano sani, diversamente da un giornalismo che urla, distrugge, e passa via.