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 2014  dicembre 11 Giovedì calendario

LuxLeaks, si allarga lo scandalo fiscale che coinvolge il Lussemburgo di Juncker. Altre 35 aziende, tra cui anche Disney, Skype e Telecom, si aggiungono alle multinazionali che hanno ricevuto sconti

Il capitalismo americano adora l’Europa. È lì che sposta gran parte dei suoi profitti. E l’amore è ben corrisposto: il Vecchio continente tratta quei profitti con guanti di velluto e aliquote di favore. Dell’ordine dello 0,25%. L’ultima puntata dello scandalo LuxLeaks mette in scena il Gotha delle multinazionali Usa. Si va dalla Microsoft a Walt Disney, passando per i fratelli Koch celebri per il loro appoggio finanziario all’ultradestra del Tea Party: patrioti nelle manifestazioni di piazza, non nel comportamento da contribuenti. Lo scoop è stato realizzato dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), un network di 185 reporter disseminati in 60 paesi, che fanno capo all’ong di Washington The Center for Public Integrity.
Il centro del misfatto è ancora una volta il Granducato del Lussemburgo, paradiso fiscale che per decenni ha attratto società straniere con offerte molto speciali, accordi negoziati su misura per minimizzare il prelievo. A parte l’elenco sempre più lungo delle multinazionali – vi compare anche Telecom Italia – il protagonista indiscusso dello scandalo è lo stesso: Jean-Claude Juncker, che oggi presiede la Commissione europea ma era premier e ministro delle Finanze all’epoca in cui il Lussemburgo offriva i patti scellerati ai big del capitalismo americano e mondiale. La Microsoft ne ha approfittato per spostare verso la filiale lussemburghese i profitti della sua filiale telefonica Skype.
Nelle puntate precedenti di LuxLeaks erano apparsi altri big dell’economia americana, da Pepsi Cola a FedEx. Una filiale della Disney, secondo quanto rivelato dall’Icij, ha opportunamente ubicato i suoi profitti in Lussemburgo per oltre un miliardo di euro, col risultato di pagarci appena 2,8 milioni di tasse, cioè appunto un’aliquota dello 0,25%. C’è il caso del conglomerato Koch: colosso petrolchimico, non quotato in Borsa, la cui famiglia proprietaria è la quarta fortuna d’America, e finanzia tutte le cause politiche più reazionarie, dal negazionismo climatico alla xenofobia anti-immigrati. Una filiale dei Koch, ha spostato in Lussemburgo 269 milioni di dollari di profitti e ci ha pagato solo 6,4 milioni di tasse. C’è di che sfatare tutti i preconcetti. L’Europa ha fama di essere un’area ad alta pressione fiscale mentre gli Stati Uniti si considerano una terra più amichevole verso il business. A giudicare dalla fuga delle multinazionali Usa verso quel paradiso dell’elusione che è il Lussemburgo, è vero l’esatto contrario. Un’altra conferma che viene dallo scoop dell’Icij: i patti speciali fra il Lussemburgo e le multinazionali venivano negoziati dai Big Four, i quattro grandi della certificazione dei bilanci: PwC, Ernst&Young, Deloitte e Kpmg. L’alluvione di rivelazioni continua a colpire l’immagine di Juncker. La stampa Usa si chiede, per esempio, com’è possibile che la Commissione di Bruxelles persegua per elusione fiscale Apple e Amazon, Fiat e Starbucks, senza mettere sotto accusa anche le controparti nei governi lussemburghese, olandese, irlandese, che a quelle multinazionali offrivano trattamenti diversi da quelli dei normali contribuenti. Lo stesso Juncker in un’intervista a Libération ammette che queste rivelazioni lo indeboliscono «perché Lux-Leaks suggerisce che ho preso parte a operazioni non conformi con le regole etiche». Ma finisce per autoassolversi con il classico «così facevan tutti». Il che è falso, altrimenti le multinazionali sarebbero rimaste a casa loro.