Corriere della Sera, 11 dicembre 2014
Come cambiano le manifestazioni di protesta, da Hong Kong a New York. E come i social network e i media hanno aumentato la potenziale visibilità su scala globale
Credo che fra le manifestazioni americane e quelle di Hong Kong vi sia anche una differenza: negli Stati Uniti i partecipanti alle proteste sono spesso violenti, a Hong Kong i giovani protestavano in modo che si potrebbe definire corretto. Tuttavia ho osservato che i media continuano a parlare solo delle manifestazioni in corso negli Usa. Come mai?
Angela Caputo
Como
Cara Signora,
Una osservazione, anzitutto: in materia di manifestazioni vi sono stati cambiamenti di cui occorre tenere conto. Grazie alla moltiplicazione dei canali televisivi e alla crescita delle reti sociali, la potenziale visibilità di una pubblica protesta su scala globale è enormemente aumentata. Non vi è notiziario televisivo, a qualsiasi ora del giorno e della notte, che non renda conto di cortei o occupazioni in un numero crescente di Paesi. Esiste un rapporto tra il numero delle manifestazioni e la loro visibilità? Probabilmente sì. Gli organizzatori sanno che la platea si è prodigiosamente allargata e che occorrono, per conquistare spettatori, almeno due talenti: quello del militante politico e dell’impresario teatrale.
Non basta avere un obiettivo e formulare richieste. Occorre che i cartelli e gli striscioni siano scritti in inglese perché è questa, naturalmente, la lingua della protesta globale. Occorre che lo stile della manifestazione piaccia al pubblico, solleciti curiosità e consenso. A Budapest, quando il governo ha cercato d’introdurre una tassa su Internet, gli organizzatori di una manifestazione notturna hanno chiesto ai manifestanti, mentre attraversavano il ponte sul Danubio, di accendere i loro telefoni cellulari. A Istanbul, in occasione di una manifestazione contro l’assedio di Kobani, (la città curda minacciata dallo Stato islamico), molti manifestanti sfilavano portando sulle loro braccia il simulacro di un corpo umano avvolto in un sudario. A New York, in occasione di Occupy Wall Street, e a Madrid, all’epoca degli indignados, molti occupanti indossavano la maschera di Guy Fawkes, il più noto fra i congiurati che nel 1605 tentarono di fare saltare in aria il Parlamento britannico. A Hong Kong, durante le manifestazioni delle scorse settimane, i giovani protestatari brandivano graziosi ombrellini contro i bastoni della polizia. Più recentemente, dopo la morte di Eric Garner (un afroamericano strangolato dalla polizia di New York), i manifestanti, nelle città americane, ne mimavano la morte portando le mani alla gola.
Naturalmente l’efficacia di una manifestazione non può dipendere soltanto dalla fantasia di un impresario. Quelle americane ci sembrano più importanti di quelle di Hong Kong perché concernono la maggiore potenza mondiale, un Paese che è spesso un passo avanti, nel bene e nel male, quando vengono fissate le priorità mondiali nella politica e nei costumi. Forse commettiamo un errore. Forse ciò che accade in Cina (a cui Hong Kong appartiene) sarà presto più importante, in un ultima analisi, di ciò che accade negli Stati Uniti. Ma il grande mercato dell’opinione mondiale non se ne è ancora accorto.