Corriere della Sera, 11 dicembre 2014
Le memorie dell’autista di Berlinguer: «Le Br lo pedinavano. Sono convinto che volesse cambiare nome al partito. Con Lama non si amava. D’Alema? Non gli piaceva tanto, troppo presuntuoso»
«Sono le 2 e mezza di notte. Per la seconda volta in pochi giorni ho portato Berlinguer all’appuntamento con Moro, a casa di Tullio Ancora, vicino a piazza Istria. È la primavera del 1978, si tratta la nascita del primo governo appoggiato dal Pci. Un compagno accende la lucetta sopra l’ingresso: è il segnale che il capo sta per scendere. La portiera è già aperta. Mi volto, ma sul sedile non vedo Enrico; vedo Aldo Moro, che è salito per sbaglio sull’auto del segretario del Partito comunista. Gli sorrido e gli dico che si è sbagliato. Moro chiese scusa mille volte. Dopo raccontammo la scena a Berlinguer, che si divertì moltissimo…».
Alberto Menichelli, 85 anni, per 15 l’ombra del leader, è seduto in un bar di San Giovanni. Davanti ha le bozze del suo libro di memorie, In auto con Berlinguer, che Wingsbert pubblica lunedì prossimo. «Con il maresciallo Leonardi, il caposcorta di Moro, eravamo amici. Ci invidiava le auto blindate, che al presidente della Dc erano state negate. Berlinguer aveva avuto la prima macchina blindata d’Italia: gli operai di Pisa ci avevano dato il vetro, i compagni di Roma avevano messo le lastre d’acciaio alle portiere. A lui non poteva accadere quel che accadde a Moro: oltre alla blindata e all’auto della polizia, c’era sempre un’altra macchina del partito, ogni volta diversa per confondere le Br, che ci precedeva o ci affiancava. E se fossero riusciti a rapirlo, i compagni l’avrebbero trovato, avessero dovuto setacciare tutta Roma. I poliziotti di scorta erano iscritti al partito: uno di nascosto, l’altro apertamente. Lo trasferirono a Udine per punizione. Allora intervenne Pecchioli: “Almeno mandatelo a casa sua”. Così fu trasferito a Lecce. Comunque le Br ci pedinavano. Nelle loro carte avevano annotato le abitudini di Berlinguer, compresa la sosta ogni sera in latteria per comprare un litro di latte. Una volta gli chiesi: “Ma che te ne fai di tutto ‘sto latte?”. Sorrise: “Il frigo di casa è sempre mezzo vuoto”».
«Enrico sorrideva spesso. Non era affatto triste. Gli piaceva scherzare. Una volta stavamo andando in Calabria, e ci fermammo a pranzo a Lagonegro. Lui cominciò a fare palline con la mollica di pane e a tirarcele; scoppiò una battaglia. Mi prendeva in giro perché avevo paura dell’aereo, a ogni decollo mi chiedeva: “Hai messo il paracadute?”. Canzonava un uomo della scorta, Righi, partigiano di Carpi, che adorava il lambrusco; gli diceva che era la coca-cola italiana, “vuoi mettere il cannonau? Quello sì che è un vino!”. Adorava la Sardegna. A Barcellona tenne un comizio con Santiago Carrillo nella Plaza de Toros strapiena, e concluse in una lingua sconosciuta, nel tripudio della folla. Gli chiesi cos’avesse detto. E lui: “Ho parlato catalano. Assomiglia al dialetto della mia terra”. Era popolarissimo anche all’estero, ai mercati generali di Parigi rischiò di soffocare per l’abbraccio della folla, quella volta ebbi paura. Come quando a Tarquinia, alla fine della festa dell’Unità, mi propose una scommessa: “Vuoi vedere che se mi travesto non mi riconosce nessuno?”. Si mise un cappellaccio e gli occhiali scuri di Maria, la seconda figlia. Lo riconobbero tutti, fu dura sottrarlo all’abbraccio dei militanti».
«Al partito sacrificò tutto, anche la vita privata. Eravamo sempre insieme, pure a Natale, che passavamo alle Frattocchie. Stavamo giocando a tombola, e lui gridò esultante: “Ambo!”. I bambini lo presero in giro: “Cosa vuoi vincere con un ambo?”. Cambiò carattere solo dopo la morte di Moro. Il 9 maggio mi telefonò: “Abbiamo avuto una segnalazione. Vai in via Caetani, c’è un mio amico che abita al primo piano: sali da lui, affacciati alla finestra e dimmi cosa vedi”. Gli descrissi la scena del ritrovamento del corpo. A un tratto sentii che non parlava più: mi aveva attaccato il telefono, come non aveva mai fatto. Era disperato: capiva che con Moro era morta la sua politica».
«Il rapporto con Craxi all’inizio non era così cattivo come dicono. Con il suo autista, Nicola Mansi, eravamo amici, anche se lo prendevo in giro perché guadagnava più del doppio di me. Dopo le elezioni dell’83 accompagnai Enrico con Chiaromonte da Craxi: all’uscita era soddisfatto, sperava di aver gettato le basi per un’alleanza. Invece Bettino chiuse l’accordo con la Dc. E al congresso di Verona ci tese una trappola: mentre gli altri ospiti passavano di fianco al palco, noi dovemmo attraversare tutta la sala, in una selva di fischi e insulti. Io ero furibondo, lui non batté ciglio».
«Quando mi dissero che era morto, scoppiai in un pianto convulso. Mi tornò in mente la nostra vita insieme: quando arrivavo a casa sua a portargli i giornali alle 7 e mezza e lui mi apriva in pigiama; la volta che in treno ci accorgemmo che aveva una scarpa diversa dall’altra; quando lo vidi seduto per terra nel salotto tra un mucchio di libri (“ma che ci fai lì?”; “sta zitto, ho nascosto 50 mila lire dentro un romanzo e non ricordo quale”); la volta che si mise a giocare a pallone sul piazzale della Farnesina con il figlio Marco e i suoi amici, si fermò una Fiat 130, si abbassò il finestrino: era Moro, che rimase incuriosito a guardare Berlinguer battere un calcio d’angolo. Fu Lauretta, la figlia più piccola, a consolarmi. Ancora oggi voglio bene ai figli di Berlinguer come fossero miei».
«Certo che aveva difetti. Ne aveva tantissimi. Ad esempio era pignolo: non l’ho mai visto parlare a braccio, lavorava ai discorsi per intere notti. E trascurato: non si pettinava mai. Quando entravo in direzione ad avvisarlo di una telefonata, a volte interrompevo liti furibonde. Lui dava ragione a tutti, ma decideva da solo. Era amico di ciascuno e di nessuno. Con Lama non si amavano: una volta a Torino un corteo operaio passò sotto il nostro albergo, Lama gli disse di non scendere, Enrico non gli diede retta. Napolitano? Rapporti normali, ma lui stava con Amendola, che era il vero avversario interno di Enrico; mentre con Ingrao andavano d’accordo, il fratello Ciccio Ingrao era il suo medico. Fu lui a consigliargli di bere un goccio di whiskey prima dei comizi, per vincere la stretta allo stomaco che gli dava la vista della piazza. Tra i giovani, i prediletti erano Bassolino e Angius. D’Alema era segretario della Fgci, ma non gli piaceva così tanto: troppo presuntuoso. Berlinguer intendeva modernizzare il partito, non voleva ad esempio che il segretario restasse in carica a vita. E stava pensando di cambiare nome al Pci. Non me lo disse mai esplicitamente, come lo sto dicendo io a lei; ma ne sono convinto».