la Repubblica, 11 dicembre 2014
La confessione dello scrittore Richard Ford: «Chiesi alla Cia di reclutarmi, ma mia moglie si oppose con forza e così rinunciai». Intanto negli Stati Uniti esce il suo ultimo romanzo che riprende il personaggio cult della sua trilogia: «Ma stavolta parlo di vecchiaia»
A due anni di distanza dal magistrale Canada, Richard Ford ha dato alle stampe un nuovo libro, uscito in America con il titolo Let Me Be Frank With You. Il testo, composto da quattro lunghi racconti ambientati all’epoca dell’uragano Sandy, ironizza sul nome del protagonista, che dichiara di volere essere franco con il lettore: è ancora una volta Frank Bascombe, personaggio centrale della trilogia Sportswriter, Il giorno dell’Indipendenza e Lo stato delle cose, pubblicati in Italia da Feltrinelli. Questo ritorno in un terreno conosciuto alla perfezione è arricchito da una caratteristica inevitabile: Frank, che ha gli stessi anni dell’autore, comincia a sentire il peso della vecchiaia.
E il dolente resoconto dell’esistenza vede alternare i ricordi ai rimpianti. Il libro è una meditazione sull’ineluttabilità dello scorrere del tempo, la fallacia del piacere, e su come l’età non porti necessariamente saggezza: una delle battute conclusive è «alla fine il viaggio della vita è spesso un gioco di attesa». «A una certa età si tratta di temi inevitabili», mi racconta di passaggio a New York, dove tiene dei seminari di scrittura, «l’unica differenza tra gli scrittori è nel come vengono affrontati».
Ford, ma è vero che lei ha lavorato per la Cia?
«Ho solo fatto una domanda di lavoro, ma poi mia moglie Kristina si è opposta: non aveva nulla contro la Cia in particolare, ma molto contro l’idea di lavorare per il governo».
E così, invece che agente segreto, è diventato uno scrittore. Che adesso affronta un tema classico della nostra contemporaneità: la vecchiaia.
«Uno scrittore deve decidere se parlare della vecchiaia e della morte in maniera diretta o trattare il tema parlando d’altro. La scrittura, come ogni forma di espressione, nasce con la vita e tende a superarla. Speriamo che non si tratti di un’illusione, destinata a scomparire».
Cosa succede dopo la morte?
«Nulla, è la fine di tutto. E la vecchiaia ne è la preparazione, con tutto quello che ne consegue».
Crede in Dio?
«No, anche se sono stato educato in maniera religiosa e ho frequentato la chiesa presbiteriana fino a ventun anni».
Cosa le è rimasto di quegli insegnamenti?
«Ripenso sempre alla splendida definizione di San Paolo sulla fede: “L’evidenza delle cose non viste”. È una frase che mi turba intimamente, forse perché rivela quello che ho sentito mancare nella mia esperienza: mi chiedo se tuttora si tratti di un anelito».
Esiste qualcosa in cui crede in maniera assoluta?
«L’arte: ha dato senso alla mia vita, e, per usare un termine religioso, le ha offerto redenzione».
Torniamo al libro. Che segna il ritorno del suo personaggio più celebre.
«Ho scoperto che aveva ancora alcune cose da rivelare. È un altro elemento che si può leggere in chiave religiosa: non esiste niente e nessuno che possiamo comprendere interamente. E niente e nessuno che scompare per sempre, anche quando muore».
Quanto c’è di Richard Ford in Frank Bascombe?
«Il meno possibile: se scrivessi solo di me sarebbe poco interessante».
Come mai in questa occasione ha usato la forma dei racconti lunghi?
«Considerando quanto li amano gli editori e i lettori direi che si è trattato di un istinto suicida, ma poi ho pensato che volevo cimentarmi con un genere americano che ha dato grandi risultati: quello del grande romanzo breve».
Ma la letteratura americana ha prodotto anche grandi romanzi lunghi, a cominciare da Moby Dick.
«Sono eccezioni: il meglio è nel breve, come dimostrano Il Grande Gatsby, o So long. See you tomorrow di William Maxwell. Per non parlare delle raccolte di racconti di molti grandi scrittori».
Il suo è stato solo desiderio di emulazione? Una sfida letteraria?
«Ogni forma di espressione artistica non può nascere solo dal mettersi alla prova sul piano del linguaggio, ma da una necessità intima».
Lei è nato in Mississippi: si ritiene uno scrittore del Sud?
«Assolutamente no: non ne ho scritto né saprei farlo. Sono nato lì per caso, e comunque contesto in generale questo tipo di definizioni. Ci ho messo tutta la vita a fuggire da quel mondo, compreso il razzismo e il classismo».
La critica la definisce spesso uno scrittore per uomini.
«Ed è una definizione che mi fa imbestialire, non solo perché in molti dei miei libri ci sono personaggi femminili più importanti di quelli maschili. E poi, anche se lo fossi? L’unica differenza interessante è quella tra scrittori bravi e scrittori non bravi».
Un suo mentore è stato EL Doctorow: cosa ha imparato da lui?
«Quando hai un retropensiero discordante, ascoltalo, non aver paura di mettere in crisi le tue convinzioni. E lavora sempre con umiltà».
L’altro suo punto di riferimento è stato Raymond Carver.
«Eravamo d’accordo sulla necessità della scrittura, e c’era un’affinità legata anche ai luoghi della nostra vita. Mi ha fatto sentire, con la sua stessa vita, che esisteva un’altra persona, che stimavo molto, che la pensava come me: era intellettualmente curioso e ambizioso, ma non un intellettuale».
Oggi assistiamo alla fine del minimalismo.
«Anche in questo caso contesto le catalogazioni. E comunque non ho mai visto un fiorire di grande qualità. Neanche Carver in realtà lo era, a meno che non definiamo minimalismo il dare solo quello di cui si ha bisogno».
Lei ha lavorato anche a Hollywood, come sceneggiatore del film Gli angeli volano basso (1990). Cosa le ha lasciato quella esperienza?
«Poco o nulla, perché non avevo alcun talento. Ma penso spesso al glamour, all’amicizia con Joan Didion e Robert Towne, e, soprattutto, all’emozione di aver utilizzato per un po’ di tempo la scrivania alla Paramount dove lavorava Raymond Chandler».